Kim Gordon, voce ipnotica e sussurrata (ma monotona)
WeiJi: nella vita precedente mi giocavo sempre questa carta quando volevo stupire con l’effetto speciale. L’ideogramma cinese che indica la “Crisi”.
Diversamente da quanto ormai sanno anche i sassi, il termine non indica l’unione di pericolo e opportunità, ma sostituisce quest’ultima con la parola “momento cruciale”.
E questo momento ora è arrivato.
Affrontare la crisi.
Da due giorni sono in crisi perché, nel mio ben celato, ma nemmeno troppo, egocentrismo, ai concerti mi sento sempre dalla parte sbagliata.
Empatizzo con gli artisti, subisco una dilatazione dell’Io che si espande fino ad arrivare sul palco accanto a loro. Sono in crisi perché, per questo motivo, vibro insieme alla loro energia, scendo dentro me stesso e quando devo raccontarli non faccio altro che mettere su carta quello che scopro.
Sono in crisi perché quando leggo di Jimmy Page dire «Tecnica? Non conta. Io mi occupo di emozioni», mi sento meno solo su questa terra.
Sono in crisi perché non mi piace per niente dare l’immagine di qualcuno che sale su un pulpito, nemmeno a me stesso.
Sono in crisi perché, nonostante mi adiri abbastanza facilmente, mi dilania l’idea che qualcuno possa risentirsi per le mie parole.
Sono in crisi perché so già che mi pentirò di aver scritto un pezzo come questo.
Sono in crisi perché quelli che non sanno fare a botte, quando devono dar qualche colpo o vengono uccisi o esagerano e uccidono.
Sono in crisi perché proprio per questo ho dovuto riscrivere tutta la prima parte dell’articolo.
Sono in crisi perché «ma chi cazzo ti credi di essere?».
Insomma, sono in crisi perché a me il concerto di Kim Gordon nell’anfiteatro di Ostia Antica, fondamentalmente non è piaciuto.
È non mi è piaciuto perché non mi sono emozionato.
Sul perché, ho provato a darmi qualche risposta.
Convincente? Non lo so.
La serata comincia accanto ad amici fotografi e davanti a taglieri e aperitivi.
Prosegue con la passeggiata davanti al tramonto sulle rovine di Ostia Antica, che desidereresti non arrivare mai, a meno che tu non sia un fotografo con l’attrezzatura sulle spalle.
Va avanti con il sorriso dell’addetta all’accoglienza che vorresti tatuarti sul cuore per portartelo dietro indelebile e conservarlo per le malinconie delle serate autunnali.
Si fa improvvisamente cupa con l’urlo in stile «Careful With That Axe, Eugene» ad annunciare l’opening di Caterina Palazzi, contrabbassista romana, maschera bianca sugli occhi, inondazioni di loop, atmosfere che, come un buco nero, risucchiano qualsiasi barlume di luce residuo, e mi rimanda qualche eco di sonorità del Battiato pre Cinghiale Bianco.
È forse un po’ troppo gotica per i miei gusti, performance un po’ breve, ma è comprensibile in quanto l’opening comunicato all’artista soltanto poche ore prima.
L’anfiteatro inizia a riempirsi, le persone si siedono sulle gradinate, io, fedele alla mia nuova religione, che impone l’obbligo di assistere in piedi a tutti i concerti in cui sia presente una batteria sul palco, mi posiziono in alto.
Cerco, senza trovarle, parole adeguate a descrivere la meraviglia del tramonto visto da quassù (ancora non so che tra poco penserò qualcosa di diverso) e inganno il tempo in modalità autistica, cercando di fare una stima quanto più precisa possibile degli spettatori presenti.
E poi arriva Kim Gordon, forma smagliante, maglietta bianca e shorts dorati.
L’occasione è la presentazione di “No Home Record”, datato 2019, cronologicamente il suo primo lavoro solista. Accompagnata da una band al femminile, formazione più classica: batteria, basso e chitarra elettrica.
Dietro, uno schermo sul quale scorreranno per tutta la durata dello show immagini in movimento di tranquilla e ordinaria quotidianità urbana e naturalistica made in USA.
Il contrasto tra le immagini e la frantumazione di ogni regola armonica e melodica è stridente.
Non è un concerto che trascina, è un concerto che inchioda.
Implosione e non esplosione, la musica si avvolge in spire e ti divora da dentro anziché farti esplodere.
La chitarra ha quasi esclusivamente funzione rumoristica e sperimentale, suonata prevalentemente utilizzando soltanto la mano destra, basso e batteria sotto fanno da martello ostinato, sostenuti non di rado da basi elettroniche preregistrare.
Sopra la voce di Kim Gordon, ipnotica, sussurrata e monotona.
La scaletta dei brani segue, con una sola eccezione, l’ordine del disco.
Il pubblico non si fa pregare per scendere dalle gradinate per riempire il parterre, ma… ma il concerto manca di guizzi, si trascina sgonfio e scarico.
Un esempio: ‘Cookie Butter‘, il primo pezzo in cui prende la chitarra.
Costruito su un solo accordo, risulta monocorde.
La band non gioca con l’energia, le tensioni, le dinamiche.
E la stessa Gordon potrebbe fare di più con la voce.
Le musiciste si limitano a fare il compitino e poco più, a volte mi appaiono scollate e poco amalgamate con l’artista, ho il dubbio che vi sia poco ascolto e poco dialogo.
Dubbio che diventa qualcosa di più quando, nel pezzo che chiuderà il concerto, la batteria sbaglierà clamorosamente nel chiamare l’attacco del pezzo, entrando quando Kim Gordon non è ancora pronta con la sua chitarra e dovendosi interrompere.
Forse saranno anche state le mie aspettative altissime.
Tre mesi fa Thurston Moore mi aveva trascinato, centrifugato e fatto volare assai più in alto di quanto non abbiano fatto due anni fa i gamberi rossi di Mazara del Vallo (leggi qui il report delal serata, ndr).
Oggi esco con più di qualche perplessità.
A onor del vero, le responsabilità non credo siano soltanto dell’artista.
Le casse in numero insufficiente e rivolte verso l’alto, tagliano fuori il parterre.
Da sotto, dove mi sono spostato, il concerto si sente quasi solo dagli amplificatori di palco, con la voce di Kim Gordon che si perde in un impasto poco comprensibile.
E infatti sono i momenti solo strumentali che mi convincono di più.
È il caso di ‘Get Yr Life Back‘, dove sulla base elettronica l’esplosione di chitarre cariche di effetti danno vita a un momento che definirei di eversione e sovversione.
E poi la location, meravigliosa, magica, ma penalizzante per la resa sonora dello show.
Non ho dubbio che in un luogo al chiuso, magari più piccolo e raccolto, magari ricavato da un capannone postindustriale avrebbe reso mille volte di più.
I momenti più convincenti sono nel bis, quando finalmente emerge tutta l’energia noise e punk.
È il momento di maggior presa viscerale sul pubblico.
Omaggia i DNA, band simbolo della no wave newyorkese di fine anni ’70, riproponendo una versione tirata e trascinante di un loro pezzo, ‘Blonde Red Head‘.
Chiude con ‘Grass Jeans‘, singolo del 2021, con una parte dei proventi destinati alla Fund Texas Choice, associazione che si batte per il diritto all’aborto delle donne, che si dissolve in una lunga coda rumoristica, con le chitarre annegate in un mare di delay e distorsioni.
Guardo l’orologio, è passata un’ora e nove minuti dall’inizio del live.
I dubbi aumentano.
Di nuovo a piedi tra le rovine di Ostia Antica.
Pericolo, momento cruciale.
La crisi si fa strada, dovrò guardarla negli occhi senza rimanerne pietrificato.
L’ho appena fatto, attendo la punizione degli Dei.