Jozef Van Wissem, la musica sinusoidale
Pistoia, luglio 2015, mattinata grigia e piovosa. Attendevo che la giornata prendesse la sua piega e mi concedevo l’illusione di ingannare il tempo in una libreria. Mi cadde l’occhio su un libro dall’insolito formato di 16,5×21 in bella mostra su un tavolo espositivo. Grafica di copertina essenziale, scarna ma attirava la mia attenzione. Copertina nera, nella parte superiore il titolo, “Come Funziona la Musica”, in quella inferiore il nome dell’autore: David Byrne.
Essenziali come la copertina, caratteri molto grandi, maiuscoli, senza le “grazie”. Tra titolo e autore l’icona del volume del suono che troviamo in ogni oc e piattaforma per l’ascolto.
Abbiamo da sempre bisogno di genialità, e in periodi di vacche magre utilizziamo troppo spesso il termine che qualifica la persona portatrice di tale qualità. Una preghiera laica della contemporaneità dei social reciterebbe “dacci oggi il nostro genio quotidiano”. Non condivido questo abuso, ma credo che un simile termine usato in relazione al leader dei Talking Heads non renda conto appieno della sua grandezza.
“Come Funziona la Musica” apre mente e prospettive sull’universo dei suoni come se le prime fossero una scatoletta di tonno. Byrne eviscera tutti i fattori che contribuiscono a creare la creazione, la riproduzione e la percezione dell’esperienza musicale, soltanto in parte determinata dal lavoro dei compositori e degli artisti. Quella mattina, al riparo del diluvio torrenziale estivo, iniziai a riflettere sull’importanza del contesto in cui avviene l’ascolto o la fruizione della musica. Tipologia di locale e di pubblico, organizzazione dello spazio, presenza o assenza di posti a sedere e loro disposizione e altro ancora.
Da quel giorno, anche per personale (de)formazione, considero l’allestimento del contesto dei concerti un fattore chiave per la riuscita degli stessi. È uno dei motivi alla base della mia avversione ai posti a sedere nel caso dei concerti pop, rock, afro/caraibici. È il motivo per cui ritengo che invece sia fondamentale gustare comodamente seduto un concerto di Josef Van Wissem, che oggi, giovedì 21 marzo, all’INIT di Roma sta imbracciando il suo liuto. Ne riparleremo più avanti
Jozef Van Wissem è un liutista olandese attivo da diversi decenni sulla scena musicale con ben 35 album all’attivo. Notevole talento e vena compositiva, deve la sua notorietà ai suoi lavori per e con Jim Jarmusch. La collaborazione con il regista dell’Ohio gli frutta la Palma d’Oro al festival di Cannes per la migliore colonna sonora e arriva fino ai nostri giorni. Roma è la prima delle sue tre date italiane del tour europeo di presentazione di “The Night Dwells in the Day”, suo lavoro datato 2024. Domani sarà atteso allo Spazio 211 di Torino e successivamente a Livorno
Volendo entrare meglio nel mondo dell’artista è importante sapere qualcosa della sua tecnica compositiva. La maggior parte dei suoi lavori sono basati sulle riscritture al contrario delle intavolature per liuto barocco, alle quali aggiunge variazioni tematiche e ritmiche. A partire da queste strutture palindrome procede poi con la tecnica del “cut-up”, tagliando parti di frasi e melodie, cambiando loro di posto nel brano e mischiandole. In alcuni pezzi fa uso dell’elettronica, in altri, più sperimentali, la sua musica assume connotazioni più marcatamente noise. Ma mantiene quasi sempre “pulito” il suono del liuto, così come classica resta la tecnica per suonarlo. Non usa il plettro, ma le dita, e usa il poggiapiede. Lo strumento suonato nel tour è il liuto barocco, che differisce dal rinascimentale per il maggior numero di corde.
Per sua ammissione, Jozef Van Wissem nella sua musica ama un approccio minimalista, tenendo a lungo lo stesso accordo e aggiungendo via via delle microvariazioni. Non è una musica con climax energetici, non vuole colpire alla bocca dello stomaco, ma ipnotizzarti lentamente. Accade con la circolarità a specchio delle sue composizioni. Microcellule ritmiche e melodiche che si ripetono con regolarità. Stasera nessuna concessione all’elettronica, mi aspettavo l’utilizzo dell’ormai immancabile loopstation ma niente di questo. Qualche piccolo problema di innesco del larsen in un paio di momenti non compromette la resa del live. I suoi arpeggi fanno pensare alla traduzione in musica di numeri periodici. Così come le linee di basso possono essere rappresentate da un eterno e continuo ritorno di onde. L’alternanza sul primo e sul quinto grado va avanti all’infinito come una funzione sinusoidale. È la matematica, anzi, la trigonometria applicata alla musica.
A volte avvengono cambi di modalità, da minore a maggiore, e di ritmo. Accelerazioni a evocare danze di festa e atmosfere magiche e creature fantastiche della tradizione celtica, frammiste a sonorità più oscure e crepuscolari. Luce e tenebre si alternano e si compenetrano al punto da risultare indistinguibili.
«A volte la gente sostiene che anche quando suono un brano felice, esso risulta comunque triste».
Questo accade anche quando tira fuori dalle corde del suo liuto un andamento quasi da sirtaki veloce, con la voce che vi disegna una melodia fortemente scandita, squadrata, senza variazioni, ipnotica.
Il cantato non ha un ruolo da protagonista. Quando interviene è precario, labile, quasi si possa sgretolare da un momento all’altro. Oppure ossessivo, incessante, con la funzione di scandire il ritmo delle danze. L’unica concessione tecnico/esecutiva alla modernità è, in un solo brano, l’utilizzo del bottleneck, che lascia entrare appena appena un filo di luce blues tra le fronde degli alberi della foresta in cui ci troviamo.
Il concerto non supera i quarantacinque minuti di durata. Rientra per un rapido bis. Appare stanco e tormentato. Forse prosciugato dalla sua musica, forse lo sforzo introspettivo e immersivo nella sofferenza e oscurità personale. Un concerto coraggioso, che non ha richiamato il pubblico che meritava, sebbene l’età media più bassa di quanto mi aspettassi mi regala speranza.
Un concerto al termine del quale mi chiedo come sarebbe stato se avesse osato appena un po’ di più con l’elettronica. Ma è solo una mia curiosità.
Un concerto da ascoltare seduto, come anticipato qualche riga fa, lasciando gli occhi liberi di chiudersi e il corpo libero di abbandonarsi, la nostra psiche di scendere dentro sé stessa, come nell’esperienza di una vasca di deprivazione sensoriale.
Vicino a me una ragazza. Ha il profumo della primavera quando sul suo volto non è ancora apparsa la prima ruga dell’estate.
Jean Baptiste Grenouille ne avrebbe fatto la sua ossessione, a me basterà portare il ricordo di questa sera nelle mie narici.
È il 21 marzo, la stagione dell’amore quest’anno non ha tardato ad arrivare (almeno per me stasera).