Josh T. Pearson, sonore risate e religiosi silenzi
Milano, 30 novembre 2018
L’immagine del cantautore solo, chitarra alla mano, dalle ispirazioni folk rock, magari pure statunitense, evoca artisti di tendenza e un genere ormai inflazionato in questi anni.
Josh T. Pearson, che si presenta in concerto al Circolo Ohibò di Milano, non è nulla di tutto questo.
Afferma in maniera divertente che è solo per scelta obbligata, in quanto non si può permettere una band, una carriera solista lunga ma numericamente non troppo prolifica (che segue l’esperienza con i Lift to Experience): è uno di quei personaggi da cui realmente ci si può aspettare tutto e il contrario di tutto.
L’apertura del concerto spetta a un altro cantautore solitario, barba e chitarra e un timbro basso che spedisce ogni tanto la testa a Johnny Cash.
Tia Airoldi non fa troppo rumore, ma adempie con rigore al proprio dovere.
Se avesse uno sgabello, l’atmosfera sarebbe perfetta ma anche un po’ troppo un cliché.
È un educato intrattenitore che non cerca di imitare nessuno, se non rifacendosi ad arie classiche degli anni Settanta.
Pulito, serio, buono, positivo.
Josh T. Pearson chiacchiera parecchio.
L’inizio è una lunghissima sequenza di gag da stand-up comedy, per poi buttarsi subito in un arpeggio che oscilla tra alti e bassi, quieto e fracassone.
La voce è importante, tutt’altro che allegra, ricca di elementi caratterizzanti. I pezzi sono lunghi e schizofrenici, gli affondi dolenti di chitarra spingono su e giù una voce sofferta.
È proprio il modo di cantare di Josh T. Pearson a destare grande stupore e curiosità.
Ci sono dei lunghi passaggi che stanno a metà tra il parlato e il cantato, privo di pause al punto da sembrare che stia cantando in apnea.
È in questi momenti, quando la voce si fa vigorosa, che il timbro e il modo di esprimersi ricorda un Lou Reed completamente fuori contesto.
Coi suoi continui intermezzi e con i pezzi dalle mille anime, Josh T. Pearson annulla la dimensione temporale.
C’è uno schema predefinito con cui ciclicamente i pezzi si spengono per poi riaccendersi. Il brevissimo set viene seguito da un altrettanto breve encore, con la cover di un pezzo di George Strait, dall’aria countrieggiante ma per nulla accattivante, tenendo sempre un basso profilo.
La voce di Josh T. Pearson fa sorridere quando chiacchiera e fa quasi piangere quando canta. Un personaggio che sa essere sopra le righe e anche introverso, che strappa sonore risate e religiosi silenzi.