John Grant, profondo e romantico (come piace a noi)
Immagina.
Sei in Islanda, nel Parco Nazionale Vatnajökull, stai passeggiando da ore al ritorno da una visita alle cascate di Gettifoss.
È il calar del sole, sei quasi arrivato al punto in cui hai lasciato l’auto.
Ti godi il silenzio intorno a voi, interrotto soltanto dal suono del vento della sera.
Finalmente vedi emergere dalla bruma del tramonto il tuo mezzo di trasporto ma a breve distanza anche un gruppo di tradizionali Torfbæir, le tipiche case islandesi fatte di legno e torba, che non avevi notato in precedenza.
Proprio mentre inizi a pregustare già il tè caldo davanti a un fuoco, si apre la porta dell’abitazione e un omone con la barba da boscaiolo e l’aria gentile, pacata e sorridente, ti invita a entrare.
Accetti; il fuoco è già acceso, l’acqua sta già bollendo ed è pronta per essere versata nella teiera.
Ti fa strada e ti fa accomodare davanti a un camino acceso.
Alla tua sinistra una grande finestra che dà sulla splendida natura dell’isola dei geyser.
Ti serve il tè su un vassoio di legno intagliato; insieme alla bevanda calda una generosa porzione di Pönnukökur, le sottili frittelle aromatizzate alla cannella.
E comincia a raccontare storie.
Della sua vita, del posto in cui vive, del passato, del presente e di un possibile futuro.
La voce morbida è in sintonia con il suo sorriso gioviale e rilassato.
Lo segui e ti lasci andare lungo il filo dei suoi pensieri o, chissà, dei suoi – o tuoi – sogni.
Ti perdi nelle innumerevoli sfumature armoniche della sua voce, mentre il calore del fuoco e i profumi e sapori del tè e dei dolci ti avvolgono nei piaceri della sinestesia.
Racconta di viaggi e scoperte, esplorazioni – e insieme al senso della scoperta, trovi nelle sue parole protezione e innocenza.
Potrebbero essere passati giorni o minuti dall’inizio del suo narrare quando cogli anche una sfumatura di nobile drammaticità: l’uomo con la barba racconta storie di dolore e solitudine.
Di un orfano errante che ha perso lo sguardo ingenuo di meraviglia sul mondo, per riscoprire sé stesso e l’importanza del dolore.
Dolore che purifica l’anima, regala consapevolezze, risveglia e apre la porta a nuovi mondi da esplorare.
L’archetipo dell’Orfano, che perde la sua innocenza, si scopre solo in un mondo apparentemente ostile e comprende che l’unico modo per difendersi da esso è affrontarlo, scoprirlo, percorrerlo, restarne meravigliato e da queste esperienze costruire la propria forza, saldezza e saggezza.
Il racconto del live di John Grant al Monk potrebbe finire qui.
Certo, non siamo in Islanda ma a via di Portonaccio, non ci sono le cascate Gettifoss ma un deposito Atac, un senso vietato con famigerata telecamera per immortalare le infrazioni e la stazione Tiburtina.
Ci sono però dei comodi posti a sedere: normalmente non ne sarei felice ma, in occasioni come questa, sono in linea con il mood della serata.
Rispetto all’ultima esibizione di dieci anni fa in Auditorium, John Grant si presenta in duo accompagnato da un musicista al synth.
Chi si fosse aspettato la presentazione di “Boy From Michigan”, uscito nel giugno 2021 e rimasto confinato in studio causa pandemia, rimane sorpreso: la metà delle canzoni eseguite sono estratte da “Queen of Denmark”, l’album d’esordio da solista.
Voce piena e pulita, alcune sfumature quasi da crooner.
Un piano potente, lirico, profondo e romantico.
Davanti ad esso il cantautore del Colorado – cresciuto nel Michigan – siede con la schiena dritta, proprio come le sue canzoni che stanno su da sole anche senza l’apporto di un’intera band.
La sua voce si muove in un ampio intervallo dinamico e timbrico; dal piano al forte, fino al saturato, come nel finale di ‘The Queen of Denmark‘ cantato insieme al pubblico; o all’uso del vocoder – o effetto simile – in chiusura di ‘Touch and Go‘, preceduto da incursioni svolazzanti di synth che ricordano giochi di aperture alari e codici di geometria esistenziale rivelati da qualcuno alcuni decenni fa.
Tra un pezzo e l’altro, racconta le sue storie: del suo primo concerto romano del 2011 al Circolo degli Artisti («il posto era diverso, ma le persone che ho ritrovato sono le stesse»); l’usuale elogio alle bellezze di Roma e alla bontà della pizza in un locale dalle parti del Pantheon; di un bar in stile Art Déco di Denver, con juke-box in un angolo avvolto da luci rosa prima di ‘The Cruise Room‘, unica canzone estratta dal suo ultimo disco.
Non solo malinconia, ma anche umorismo (a tratti surreale) quando si diverte a leggere alcuni buffi modi di dire italiani insegnatigli da un amico bolognese suscitando l’ilarità del pubblico.
«Borseggiatore scopabile, smettila di pavoneggiarti» o «chi ha il pane non ha i denti» si caricano di maggior forza comica se arrivano dopo ‘Glacier‘, invettiva contro i gruppi cristiano-integralisti statunitensi:
«Vuoi solo vivere la tua vita
Il modo migliore che conosci
Ma continuano a dirtelo
Che non ti è permesso
Dicono che sei malato, che dovresti chinare la testa per la vergogna
Stanno puntando il dito
E in gruppo dicono le loro parole
E direttamente dall’alto
E sembrano davvero pensare che quello che stanno facendo conti come amore»
Il finale è maestoso, con arpeggi di piano sul registro alto sopra un bordone elettronico grave e cupo – «Mi sento molto bene quando canto questo pezzo, perché sono riuscito a esprimere esattamente ciò che volevo».
Il pezzo è firmato anche da Sinhead O’Connor – sempre e solo silenzio per lei.
C’è spazio anche per un paio di novità.
‘Zeitgeist‘, contraddistinta da suoni elettronici tipicamente anni ’70, è un’anticipazione del prossimo disco in uscita nel maggio prossimo ma ciò che maggiormente suscita la mia curiosità è l’annuncio della sua prossima esibizione londinese sullo stesso palco degli Sleaford Mods.
Probabilmente si tratterà di due distinti live set, ma se dovessero fare qualche pezzo insieme, sono certo verrà fuori qualcosa di epico.
LEGGI E ASCOLTA
Sleaford Mods
RECENSIONE DISCO
Il live continua ad andare avanti tra l’alternanza di pezzi con suoni elettronici e altri in cui John Grant siede da solo al piano.
Uno di questi è ‘Drug‘ ripreso dal tempo degli Czars, la sua prima band.
L’elettronica entra nuovamente in ‘Sigourney Weaver‘, dove racconta della solitudine e dello smarrimento davanti a un mondo minaccioso e ostile.
«E mi sento proprio come Sigourney Weaver
Quando ha dovuto uccidere quegli alieni
[…]
Mi sento proprio come Winona Ryder
In quel film sui vampiri
[…]
E mi sento proprio come se fossi su Giove
Quello che sembra un sorbetto arcobaleno
Ma non si presta alla vita»
Il mio timore prima che iniziasse il concerto si rivela infondato: l’energia di cui sono cariche le sue canzoni non ha cali.
A riprova di ciò, il silenzio, l’ascolto e l’attenzione con cui i presenti, che riempiono tutti i posti a sedere della sala, seguono la sua performance.
Arriva il momento dei bis; il primo è ‘Caramel‘, solo al piano immerso in luci arancioni.
Con il secondo, invece, vuole chiudere e salutarci mettendo le cose in chiaro.
Si alza in piedi e si guadagna il centro della scena: «Questa la dedico a voi. Si chiama ‘GMF‘».
Come a dire, va bene tutto quello che vi ho raccontato finora, ok il tè, il camino acceso, i dolci tipici islandesi, l’accoglienza, i racconti. Ma a dispetto delle apparenze, ricordate che:
«I’m the greatest motherfucker
That you ever gonna meet»
Finisce con una standing ovation.
Forse alla fine ci piacciono i figli di puttana.
Più probabilmente stasera siamo qui perché ci sentiamo tutti come Sigourney Weaver.