Jethro Tull, tra presente e passato
La tappa conclusiva del tour dei Jethro Tull arriva a Milano
Sold out all’Arcimboldi per la band inglese
Ha da poco compiuto un anno di vita “The Zealot Gene”, l’album con cui Ian Anderson – dopo una pausa durata quasi quattro lustri – ha riportato discograficamente in vita la sua creatura, fornendogli contestualmente la migliore delle scuse per riportare i Jethro Tull on the road.
Il lungo tour che ne è conseguito sta passando dal nostro paese per la seconda volta in poco più di sei mesi e questa sera tocca a Milano salutarne il ritorno, accogliendoli con un Teatro Degli Arcimboldi completamente esaurito in ogni ordine di posti (e vi assicuro che il prezzo dei biglietti era tutto tranne che economico).
Per chi scrive, che non ha più visto un’esibizione dei Tull dal lontano 1997, l’attesa di questo evento è costituita da un bel mix di entusiasmo, sana curiosità e qualche lievissima apprensione.
Tra i musicisti che accompagnano il menestrello di Dumferline, infatti, non vi è alcun membro originario (si tratta essenzialmente della backing band dell’Anderson solista), e voci di corridoio danno la voce del buon Ian non esattamente al top della forma.
Apprensioni che si diradano velocemente quando razionalizzi e ti rendi conto che in fin dei conti quello a cui stai andando è un appuntamento con un capitolo fondamentale della storia del rock.
Sono le 21:00 precise quando le luci si spengono e prende via il primo dei due set previsti per questa serata.
La band prende posizione sul palco e sulle prime note di ‘Nothing Is Easy‘, dal seminale secondo album “Stand Up”, fanno ingresso in scena Ian Anderson ed il suo flauto magico, e per un attimo non si può fare a meno di pensare ad Hamelin ed ai suoi topolini.
Nemmeno il tempo di riprendere fiato ed è subito ‘Cross-Eyed Mary‘, che rende chiaro l’intento della serata: accompagnare il pubblico in un immaginifico viaggio nel tempo attraverso la rivisitazione di brani provenienti da ciascuna delle sette decadi solcate dalla band nel corso della propria carriera.
Il che, considerata la dimensione e l’importanza del repertorio da cui attingere, risulta meno scontato di quanto non si possa immaginare.
Ed in effetti, la scelta dei brani è tutt’altro che banale.
Viene infatti saltato a piè pari quel monumento che è ‘Thick As A Brick‘ (al quale Anderson dedicherà forse un tour tutto suo) per lasciare spazio ad album e pezzi meno frequentati in sede live, tipo ‘Wicked Windows‘ da “J-Tul Dot Com”, quella ‘Holly Herald‘ dal Christmas Album in cui Mendelsson si sposa con il tradizionale folk inglese, o quel fantastico tributo strumentale alla natia scozia che è ‘Warm Sporran‘ da “Stormwatch”.
I classici comunque non mancano, e quindi via a ruota libera con le varie ‘Heavy Horses‘, ‘Sweet Dream‘ e una fantastica ‘With You There To Help Me‘.
Non poteva mancare anche un richiamo al già menzionato “The Zealot Gene”, un disco abbastanza ‘di maniera’ che di certo non fa tremare i polsi ai suoi illustri predecessori, ma che rimane pur sempre un più che discreto lavoro.
La scelta è oculata, e da esso vengono estratti i tre pezzi che anche per il sottoscritto risultano tra i più efficaci, ovvero quel piccolo capolavoro di biblica rimembranza che è ‘Mine Is The Mountain‘, la tristissima ‘Mrs. Tibbets‘ con la sua terrificante rilettura della tragedia di Hiroshima ed ovviamente la title-track.
Quando il concerto volge al termina, Anderson sfodera gli irrinunciabili pezzi da 90, facendo chiudere il secondo set ad una classicissima ‘Aqualung‘ e lasciando all’ancora più classica ‘Locomotive Breath‘ l’onore e l’onere del primo ed unico bis, innescando la prevedibile quanto meritata standing ovation che accompagna l’uscita di scena del caro, vecchio Ian.
In definitiva, quello dei Jethro Tull è stato un evento vissuto sia con il cuore che con la mente.
Il primo ha trovato ampia soddisfazione e godimento nel rivivere su quel palco le gesta di una vera leggenda del rock, mentre la seconda ha dovuto constatare che, in termini di performance vocale, lo Ian Anderson dei tempi d’oro è oramai un lontano ricordo, pur rendendogli atto che con i dovuti aggiustamenti all’arrangiamento dei brani ed un approccio più easy al cantato, il grande vecchio del prog ha comunque portato a casa il risultato.
Che dire poi della band?
Tutti musicisti di caratura superiore, precisi ed impeccabili nell’esecuzione ma sarebbe davvero ipocrita affermare che, giusto per citarne una, la mancanza di un Martin Barre non si sia fatta sentire.