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Interpol live a Sesto San Giovanni (MI): un revival col brivido

A quindici anni dalla pubblicazione di “Turn on the bright lights”, disco d’esordio degli Interpol nonché loro album iconico, il tour celebrativo di questa ricorrenza fa tappa il 23 agosto al Carroponte di Sesto San Giovanni.
Il pubblico italiano, sempre molto affezionato al gruppo newyorkese, risponde a dovere e accorre in modo numeroso in questa arena estiva milanese, la cui struttura post-industriale incorniciata da luci rosse richiama curiosamente i colori e i temi della copertina del disco stesso, impiegati anche nella scenografia di palco, il cui effetto visivo viene così amplificato.
Scelta casuale? Misteriosa coincidenza? Tutto calcolato? Non ci è dato saperlo.

L’apertura del concerto spetta agli X Ambassadors, che con un set dalle arie leggere alternano il rock confidenziale e morbido, molto contemporaneo, alle chitarrine indie folk che hanno in chiusura la loro epifania, con l’arcinota hit ‘Renegades‘ a porre fine a un esibizione disimpegnata e divertente, senza esagerare.

Gli Interpol escono sul palco esattamente (o quasi) come ce li ricordiamo, eleganti, impeccabili nel portamento e molto impostati. La scaletta non lascia spazio a sorprese o all’immaginazione: “Turn on the bright lights” viene eseguito dall’inizio alla fine, ed è quindi ‘Untitled‘ ad inaugurare sommessamente la commemorazione. La voce di Paul Banks non è molto convincente, e lo stesso per ‘Obstacle 1‘, che nonostante il timbro marcamente nasale e il contributo povero del basso è sempre un pezzo bello e vibrante. Si perde di profondità in questo avvio e l’insieme di suoni rimane su un livello superficiale, accomodante.

NYC‘ sembra addirittura perdersi un po’ il tempo per strada, di tanto in tanto, anche se il suono inizia a guadagnare qualcosa in termini di personalità. Sono le chitarre a tenere alto il tiro di ‘PDA‘, con variazioni e giri interessanti di un brano mosso ma ancora un po’ incompleto, quasi bidimensionale. La mancanza del basso di Carlos Dengler, che già da alcuni anni ha lasciato gli Interpol ma che in un flashback di questo tipo sarebbe ancor più vitale, costringe il batterista Sam Fogarino a fare gli straordinari per tenere su la parte ritmica, e più in generale è proprio lui a trascinare il gruppo in un inizio decisamente mogio.

Altro pezzo ad alta frequenza è ‘Say hello to the angels‘, e anche in questo caso sono le chitarre a salire sugli scudi, compensando con il ritmo sostenuto e rielaborando un po’ il pezzo. In tutto questo, c’è qualcosa che ci sta dicendo che dobbiamo farcene una ragione, il post-punk revival, vale a dire quella parte della scena indie rock di inizio millennio che si rifaceva al post-punk originale, con un tiro all’acqua di rose ma indubbiamente carico di basso, è un sottogenere che non esiste più. Gli Interpol stessi sembrano rileggere in chiave contemporanea i loro brani, alleggerendoli della pesantezza e dell’incedere del basso e optando per suoni più digeribili.

Non facciamo in tempo a completare questa accurata analisi che subito veniamo smentiti, con grandissimo giubilo, perché ‘Hands away‘ riacquista la terza dimensione, la voce di Paul Banks torna su frequenze a cui eravamo abituati un tempo, almeno dai nostri impianti stereo, e anche il suo atteggiamento torna ad essere fiero e un po’ superbo. ‘Obstacle 2‘ ci conferma che non è un fuoco di paglia, ma un orgoglioso ricordo dei tempi che furono con un brano pieno e ben amalgamato. Se due indizi non fanno una prova, dobbiamo aspettare ‘Stella was a diver and she was always down‘ per poterne essere certi: e con un tiro apprezzabile, per una versione alquanto aggressiva di una canzone all’apparenza morbida, gli Interpol fanno capire che sul lato B dell’album funzionano ancora a dovere.

Possiamo salire di ritmo con ‘Roland‘ senza temere, il gran lavoro di Sam Fogarino lega i vari elementi e permette loro di darsi lustro. Non si può obiettare nulla nemmeno alla parte vocale, possiamo solo muovere qualche appunto sul fatto che quando gli Interpol sono in tiro non si spostano di una virgola dalla traccia master del disco, ma questo in fondo lo sapevamo già ed è una di quelle certezze a cui siamo affezionati. ‘The new‘ è bassa, ovattata e profonda, non può tradire le aspettative ed è la preparazione low core al finale riverberato e in piena continuità che arriva con ‘Leif Erikson‘.

A questo punto, Paul Banks può pronunciare le prime parole che non siano “grazii”, per introdurre l’appendice al concerto con una rapida escursione tra i brani più significativi degli album successivi degli Interpol. Ci troviamo così la voluminosa ‘Not even jail‘, ‘Take you on a cruise‘ che è una cupa sincope, il pezzo inedito ‘Real life‘, probabile anticipo del loro prossimo disco, ariosa e con grandi aperture ma senza picchi nella sua lunghezza. ‘Slow hands‘, accolta con delirante entusiasmo dal pubblico del Carroponte, non è una canzone ma un inno, un filo conduttore negli anni passati, mentre ‘All the rage back home‘ è un singolone sbilanciato.

La temporanea uscita di scena degli Interpol precede l’encore finale, che si districa tra l’armonia semplice e il riverbero di ‘The specialist‘, che in fondo è una sorta di costola di “Turn on the bright lights“, ‘The Heinrich maneuver‘ piatta e dritta, semplice e a voce un po’ bassa, e infine una ‘Evil‘ dalle strane trame, che inizialmente divaga su e giù per poi assestarsi su melodie più lineari. Una chiusura all’insegna di un dinamismo accentuato e condito da alcune imprecisioni che fanno parte del mestiere.

Chi è legato quasi sentimentalmente a “Turn on the bright lights” si sarà preso un discreto spavento iniziale, pur consapevole che i tempi sono cambiati, gli anni Zero sono andati, le band cambiano formazione e gli stili musicali si evolvono. Dal giro di boa in poi, abbiamo tirato un sospiro di sollievo. La macchina del tempo degli Interpol che ci avrebbe dovuto portare all’inizio dello scorso decennio è partita con un bel po’ di ritardo, ma sebbene con qualche acciacco ha dimostrato di funzionare ancora più che efficacemente.

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