Il suono caldo e avvolgente di Archie Shepp
Roma, 11 novembre 2019
Un artista è colui che riesce a controllare il tempo, non solamente in senso anagrafico ma persino nelle sue variazioni.
Archie Shepp è tra questi: ha attraversato ogni fase fondamentale dell’evoluzione jazz nel Novecento e fu un pioniere dell’era free, senza scadere nell’avanguardia degli eccessi.
È stato in grado di indicare la direzione durante la rivoluzione del bebop e spesso ha saputo cogliere l’ispirazione anche da arti figurative, quali la pittura o il cinema.
Non per nulla, Michelangelo Antonioni è stato un suo profondo ammiratore.
Con l’avanzare dell’età non ha per nulla attenuato la sua voglia di dialogare attraverso la sua arte: i suoni si sono fatti più caldi, quasi rassicuranti, come ha dimostrato nel live all’Auditorium Parco della Musica con un concerto-lezione che ha spaziato tra jazz e blues.
Un omaggio profondo alle sue radici con uno sguardo di prospettiva che indica la direzione futura.
Un quartetto davvero portentoso che lo sa sostenere ma persino esaltare: è stato accompagnato da Carl Henri Morisset al pianoforte, Matyas Szandai al contrabbasso e un fenomenale Stephen McCraven alla batteria.
Ogni strumento è sembrato avere una voce, non solo il sassofono di Archie, ma anche il pianoforte – e soprattutto un McCraven che è riuscito a far suonare ogni parte del proprio corpo.
Davvero commovente l’incursione blues in un ricordo legato alla sua nonna che visse gli ultimi tempi della schiavitù.
Insomma, un concerto emozionante quello del Roma Jazz Festival con il quale Shepp conferma con i suoi ottantadue anni quanto il jazz possa essere solido e in qualche modo senza fine.
Come esistesse un filo rosso che lega l’arte di ogni musicista jazz: nel vibrato di Shepp si riconoscono i ricordi meravigliosi di Charlie Parker e Sidney Bechet, ad esempio.
Sorprendente e stupefacente, un concerto tenuto da uno degli ultimi esponenti di una musica nobile che va fiera delle proprie radici che crescono, avvolgono e rassicurano noi ascoltatori.