Ibrahim Maalouf, la bellezza richiama bellezza
Il camper era tedesco, costruito nei primi anni Settanta.
Era il mezzo di trasporto di un mio amico e ricordava le maglie da calcio vintage.
All’origine bianco o giù di lì, con una fascia centrale riverniciata con i tre colori della bandiera rastafariana, rosso, giallo, verde.
Non avresti potuto mai usarlo per una rapina, ma a Roma quel 26 luglio 1989 si rivelò utile.
Viale Romolo Murri, quartiere Eur, la strada immediatamente prospiciente al Palazzo della Civiltà del Lavoro, in quegli anni utilizzato per alcuni concerti dell’Estate Romana.
Immaginatelo come l’equivalente della Cavea di un Auditorium ancora molto di là da venire.
Il palco era alla base della scalinata, dietro di esso avevano piazzato dei pannelli alti un paio di metri che delimitavano l’area del backstage separandola dalla carreggiata e impedivano la visione a pedoni e automobilisti furbi.
Ma non a quelli con un camper alto due metri e mezzo, privo di tutti gli optional ma non di scaletta che consentiva l’accesso sul tetto.
Lo parcheggiammo immediatamente dietro le recinzioni.
Salimmo in tre sul tetto verso le venti.
Era ancora presto per i megaschermi dietro ai palchi, cose che al tempo potevano permettersi solo i Pink Floyd.
La visuale era eccellente.
Sebbene non stessimo facendo nulla di illecito (non ricordo la presenza di cartelli di divieto di sosta), arrivarono i solerti addetti della sicurezza che ci invitarono a scendere con modi “garbati”.
Preferimmo non discutere e obbedimmo, ma non ci perdemmo d’animo.
Reduci dal concerto a Piazza San Marco proprio dei su citati Pink Floyd, ci sarebbe voluto ben altro per intimidirci.
Infatti, quando iniziò il concerto, pensammo che sarebbe stato gentile e carino invitare sul camper (Hergestellt in Bundesrepublik Deutschland im Jahr 1970, quindi resistente come oggi si possono solo sognare) una decina abbondante di persone.
Quando tornarono i bulldog si resero conto che non sarebbe stato il caso di insistere.
Vedemmo il concerto da una prospettiva fino a quel momento insolita, ascoltandolo dalle spie di palco.
E alla fine del concerto qualcuno di noi si portò a casa le bacchette del percussionista che ci aveva preso in gran simpatia.
E così, questo fu il mio battesimo al Roma Jazz Festival: un concerto – a scrocco – del più grande musicista degli ultimi centocinquanta anni.
Chissà se anche Miles Davis si accorse di quei matti appollaiati dietro al palco su un camper rasta.
Facciamo un salto in avanti di trentaquattro anni, tra i Parioli e il Flaminio, dove nel mentre sono riusciti a terminare la costruzione dell’Auditorium Parco della Musica.
Il Libano è da sempre l’avanguardia musicale e culturale di tutto il Medio Oriente (qui per approfondire).
Un suo figlio, Ibrahim Maalouf, trombettista nato a Beirut quarantatré anni fa, è oggi lo strumentista più popolare in Francia e si sta guadagnando la ribalta della scena internazionale.
Suonerà in Sala Sinopoli per l’anteprima del Roma Jazz Festival 2023.
Scoperto da Quincy Jones al Festival di Montreux del 2017 e in seguito costantemente promosso dalla Quincy Jones Production.
Simbolo di interculturalità ed eclettismo, nella sua musica si incontrano tradizioni e suoni provenienti dalle diverse parti del mondo. Vanta collaborazioni con numerosi artisti: tra i tanti ricordo Wynton Marsalis, Angelique Kidjo, Salif Keita, Marcus Miller, Amadou & Mariam e Sting.
L’ultima sua fatica, “Capacity To Love”, datata 2022, conferma il respiro cosmopolita dell’artista aperto all’ispirazione e agli echi delle musiche del mondo.
Un disco che svela la sua essenza già a partire dalla copertina: una tavolozza con decine di strisce di colori diversi tra loro.
È un lavoro all’insegna dell’incontro, è un inno all’inclusione, alla condivisione.
Quindicesimo album e quindici sono i brani in ognuno dei quali ospita artisti diversi della scena rap, hip hop, urban, pop e soul; tra questi Pos dei De La Soul, Tank and the Bangas, D Fumo, Erick the Architect e altri ancora.
Nel disco figurano anche interventi di icone del cinema come Charlie Chaplin e Sharon Stone.
Approccio il concerto con lo spirito migliore possibile, curioso e aperto al possibile.
L’affluenza è buona ma, complice forse la concomitanza con un altro importante concerto in città, non si può parlare di sold out.
Nutrita la rappresentanza transalpina.
Mi aspettavo la presenza di un’orchestra, invece sul palco vedo due chitarre, un piano a coda, e la postazione che presumo la sua.
Rivedo le mie aspettative e immagino un trio.
Invece esce in duo, accompagnato dal fido collaboratore François Delporte alla chitarra.
Su un groove funkeggiante la sua tromba si eleva trascinante e corposa.
Maalouf ha presenza scenica e carisma che avverti immediatamente.
Trascina in pochi secondi la sala Sinopoli in un battimani ad accompagnare ‘Layla’s Wedding‘, il brano con cui scalda la platea e fa capire l’aria che tirerà.
Mercuriale, esuberante, estroverso come tutti coloro che vengono dal paese con il cedro sulla bandiera.
Nel suo show fa diventare il pubblico protagonista.
È efficace nel bucare la quarta parete e creare in pochi secondi un rapporto empatico e profondamente intimo con il pubblico, anche in una situazione normalmente “difficile” come quella solenne e accademica di un auditorium durante un festival jazz.
Spiega poi perché la scelta di suonare in duo e per la seconda volta nel giro di pochi minuti rivedo le mie aspettative: non presenterà “Capacity to Love”, la sua ultima fatica.
Il disco protagonista della serata sarà “40 Melodies”, suonato proprio in duo con Delporte alla chitarra, uscito nel novembre del 2020, all’indomani del compimento dei quarant’anni d’età, e mai portato in tour per i ben noti motivi di forza maggiore.
Poi si siede al piano e ci emoziona con ‘Ana Fintizarak‘, tradizionale canzone egiziana, composta da Mahmoud Byrahm Altounisi e Zakaria A’hmad e portata al successo negli anni Cinquanta dalla popolare cantante Oum Kalthoum.
È una musica nobile, romantica, sospesa nell’attesa e immersa nel dolore che affonda le radici nell’assenza di chi si ama.
L’intimità e la semplicità sono le parole chiave anche del pezzo successivo, ‘True Sorry‘, in cui esplora con la tromba ogni possibilità timbrica, giocando con maestria sulle dinamiche.
Non ci sono virtuosismi fini a sé stessi e men che mai la ricerca di stupire con abilità tecniche.
Le soluzioni armoniche sono semplici, la chitarra molto pulita, un accompagnamento classico sotto con al massimo qualche accordo “sus4” che ti lascia galleggare a mezz’aria.
«La tecnica non conta, io mi occupo di emozioni», disse un giorno un noto chitarrista di una band che prese il nome da un dirigibile.
Racconta molto Ibrahim Maalouf, racconta e si racconta.
Delle pause e dei silenzi nella sua musica, delle attese, del suonare una nota paragonato al chiedere scusa, della difficoltà di farlo.
Di quando una sera, suonando un ragtime al piano, un messaggio sul suo telefono appoggiato in un angolo dello strumento lo avvisò che sarebbe diventato padre.
È il lancio per ‘Will Soon Be a Woman’, dedicata a sua figlia, immaginando lo svolgersi della sua vita.
Parte dolce per poi lanciarsi in una fuga.
La citazione del tema di ‘Love Story‘ è inaspettata quanto goliardica.
In “Barnum”, Alessandro Baricco si chiede cosa sia il jazz e prova a darsi qualche risposta.
Cita un vecchio film francese in cui, alla fine, un nero sdentato su una veranda con una chitarra in mano risponde che «il jazz è come la tua donna che ti lascia».
Lascia poi la cosa in sospeso ma non prima di aggiungere che, quando nacque, non era una parola da dire in presenza di signore.
Io so cosa sia il jazz, ma ascoltando stasera Maalouf potrei rispondere che il jazz è la vita e la vita è jazz, dipende soltanto se scegliamo di trascorrerla in battere o in levare.
Lo so, non c’è bisogno lo diciate, Marzullo mi spiccia casa.
Mentre mi perdo in queste mega masturbazioni mentali mi accorgo che sta trascinando il pubblico a cantare e fischiare sul ragtime accennato or ora al piano.
Chiama Roberto, il responsabile dell’illuminazione, e fa accendere le luci di sala.
Scende dal palco suonando tra le poltrone e continuando a chiamare le voci degli spettatori, per poi chiudere il pezzo in un quattro mani al piano insieme a Françoise Delporte, che ha temporaneamente posato la chitarra.
Non è soltanto un grande musicista, è molto di più.
È un arrangiatore, è un direttore d’orchestra, un maestro di coro, uno showman.
Trasforma il pubblico da semplice spettatore a protagonista dei pezzi.
Coinvolge e tira dentro.
Gli spettatori diventano parte attiva nella creazione del brano.
In ‘Red and Black Light‘ la chitarra è il trionfo della semplicità.
Accordi pieni, La minore, Fa maggiore e Sol maggiore, sui quali si inserisce un tema essenziale, cantabile.
Sono quattro note che prendono forma, spessore, costruiscono il loro spazio, allargano gli orizzonti in un crescendo energetico che trova il suo climax quando chiede agli spettatori di illuminare la sala con le torce degli smartphone.
‘Happy Face‘ è un classico swing.
Omaggio a Louis Armstrong nel quale ancora una volta il pubblico è chiamato ad agire come un’orchestra e cantare come avrebbe fatto Satchmo.
Maalouf diventa un vocal coach.
Accompagna gli spettatori a cantare come farebbero i cinesi, gli arabi, gli italiani, i francesi, lavorando esclusivamente sulle onomatopee fonetiche.
Poi un’ammissione: «Vi ho mentito, ma a fin di bene. Vi avevo detto che non avevo sorprese. E invece ho l’onore di ospitare un grande musicista».
Il musicista è Mihai Pîrvan, sassofonista francese con origini rom e la chiusura è infuocata.
‘Feeling Good‘ ha un sapore arabo, ma è sul primo bis ‘Back to Baskinta‘, che impazza la festa e la sala Sinopoli si alza in piedi e inizia a danzare sulla sponda libanese del Mediterraneo con la tromba di Ibrahim e il sax alto di Mihai che si rincorrono, si richiamano, si abbracciano e si riallontanano.
Il tempo di una standing ovation e arriva il secondo bis, ‘All I Can’t Stay‘, brano più intimo e introspettivo, preceduto da una dissacrante e umoristica dissertazione sulla fisica della tromba e sulla condensa che si forma sulla lega di ottone.
Poi una seconda standing ovation chiude la serata.
Un salto al mixer per complimentarmi due volte con il sound engineer – la prima per il lavoro svolto, la seconda per la gentilezza di aver perso un minuto e mezzo per lo spelling dei nomi dei due musicisti – uscire trionfante con la setlist della serata e chiudere incontrando belle persone, appagate ed entusiaste del concerto.
La bellezza richiama bellezza.
La bellezza rende belli.
Da qui al 26 novembre al Roma Jazz Festival ne ascolteremo delle belle.
Siate belli anche voi.