Heilung, tra storia e rituali
Paganesimo e neofolklorismo trionfano a Milano
La band, composta da membri provenienti da Danimarca, Norvegia e Germania, ha sprigionato dal palco un’aura magica
L’Alcatraz di Milano si trasforma in un tempio pagano per accogliere migliaia di accoliti della scena Neofolk e Dark Folk internazionale.
Anche grazie alle tante commistioni tra musica, videogiochi e serie televisive, l’aspettativa è molto alta e palpabile nell’aria.
Per la serata sarà presente il trio di nomi di punta della scena, all’insegna delle radici più nordiche dell’Europa.
L’apertura è assegnata all’italiana Lili Refrain, che opta per un intro evocativo composto esclusivamente da timpani e voce.
Riesce a scuotere la massa ed a richiamare l’attenzione del pubblico.
I volumi, non troppo elevati, danno tutto lo spazio necessario alla voce molto ben mixata e sin dall’inizio si capisce che la proposta dell’artista va ben al di là dei classici stilemi del genere.
Dopo una prima esecuzione di circa 19 minuti, la cantante prende la parola per i ringraziamenti di rito (stavolta in lingua italiana) e la prosecuzione con la seconda parte del set.
Le luci sono statiche e glaciali, sfondo perfetto per la musica di Lili, fatta di suoni ottenuti da sovrapposizioni con richiami folkloristici ma orientati a tratti anche ad elementi noise.
L’abilià di Lili Refrain nell’uso di strumenti diversi permette di creare sovrapposizioni sonore uniche.
Un finale molto carico in cui chitarre distorte richiamano sonorità più post industrial riesce ad incuriosire parecchio, lasciando voglia di approfondire un’artista nostrana che niente ha da invidiare a nomi internazionali più blasonati.
Con un intro molto leggero, Eivør inizia a far presenziare un timbro vocale molto chiaro e fiabesco. La proposta è musicalmente minimale e atmosferica, fatta di pochi suoni e staticità esecutiva che permette di non distogliere l’attenzione dall’elemento principale, ovvero le composizioni vocali.
Eivør Pálsdóttir ci accompagna in un viaggio intimo e riflessivo, dove ogni brano è un capitolo del racconto; rumori prodotti con la voce diventano parte integrante della melodia e lo show luci statico cambia ad ogni brano.
Viene difficile parlare della presenza scenica data la staticità esecutiva, ma con le sue composizioni dal tono mistico quest’artista riesce a dare qualcosa di diverso e inaspettato, complici accompagnamenti di piano e texture baritonali non banali.
La voce risulta chiara ed in primo piano rispetto al resto dei suoni, e buona parte del pubblico resta attenta e riconosce i brani più famosi tratti da una carriera più che ventennale.
È forse proprio il pubblico, a tratti fin troppo aggressivo, che fa perdere parte dell’intimità necessaria alla perfetta fruizione della proposta di Eivør.
Avviandosi verso fine set, rimaniamo con la sensazione di essere prima entrati poi usciti da un racconto fantasy dalle tinte oniriche ed oscure.
È finalmente arrivato il momento del folk sperimentale degli Heilung.
Il pubblico attende in visibilio e, dopo un suggestivo intro cerimoniale parlato, si comincia.
Partono così le voci gutturali di Faust, il cui canto di gola ricorda lo stile tibetano e il canto difonico mongolo tuvano.
Il palco è allestito con una scenografia piena di elementi naturali.
Grazie al fumo e alle luci, l’immaginario di tempi lontani contribuisce ad arricchire l’atmosfera.
Le numerose percussioni risuonano e fanno muovere il pubblico all’unisono.
È una sorta di meditazione primordiale e collettiva, i crescendo esecutivi trasportano i singoli in urla ed esplosioni di energia.
L’assenza di backing tracks non pesa.
Anzi, esalta ancor più l’utilizzo degli strumenti per creare suoni ancestrali, simili ad una forma sciamanica di orchestra primitiva.
La loro musica si basa su testi e iscrizioni runiche di popoli germanici dell’Età del Bronzo, dell’Età del Ferro e dell’Epoca vichinga, anche se c’è sicuramente molto di più.
I costumi di scena sono ricostruzioni storiche del vestiario di riferimento, comprendenti indumenti in pellame, maschere iconiche e oggettistica dettagliata.
Viene facile definire la proposta degli Heilung una sorta di “world music primordiale”, dove l’Oriente incontra l’Occidente in una bisettrice perpendicolare che conduce a nord.
Siamo costantemente catturati da vocalità e ritmiche ipnotiche, interposte a voci femminili che addolciscono la narrazione senza scadere in sonorità scontate e troppo morbide.
I suoni sono perfettamente calibrati, la resa delle basse frequenze è ottima e apprezzabile, data la quantità di voci gutturali e baritonali presenti; ottima anche la resa sonora di tutti gli strumenti, compresi quelli dalle tonalità più acute e dal suono metallico sicuramente difficile da rendere.
L’ensemble è composto da membri provenienti da Danimarca, Norvegia e Germania, e possiamo dire che la provenienza è intuibile.
Lo show di luci è parecchi variegato ed esalta le diverse espressioni vocali, colorando la scenografia in perfetta sincronia con le composizioni.
Anche se il set è piuttosto lungo, il tempo passa rapidamente.
Il concerto è talmente particolare da non lasciare il tempo di riflettere su quanto sia minuziosa ed affidabile la ricreazione storica fatta dagli Heilung.
A fine serata comprendiamo di aver assistito a scenari apparentemente lontani nel tempo – ma, forse, non così distanti dalla nostra parte più primordiale.
“Partono così le voci gutturali di Faust, il cui canto di gola ricorda lo stile tibetano e il canto difonico mongolo tuvano.”
Non è Faust, ma Traust!
Grazie per aver segnalato il refuso, con un po’ di pazienza però 🙂