Hanson live a Milano: se sei felice e tu lo sai batti le mani
Nel 1997 non avevo un lettore cd.
Lo stereo compatto con piastra a tre dischi rotanti mi sarebbe arrivato l’anno successivo, alla fine dell’ultimo anno di scuole medie, e fino ad allora mi sarei arrabattato con le audiocassette.
Nel 1997 il mio spirito critico musicale si stava iniziando a formare, ma ero ancora parecchio influenzabile da quello che veniva spinto in radio. Avevo qualche cassetta su cui registravo i pezzi migliori, e da qualche parte ne dovrei avere ancora una su cui venne impressa ‘MMMBop‘ degli Hanson. Vent’anni dopo l’uscita di questo brano storico e del disco che lo conteneva, “Middle of nowhere”, e con ben venticinque anni di carriera sulle spalle, i tre fratellini si esibiscono ancora insieme: 7 giugno, Milano, Fabrique, Barley Arts dà nuovamente gli Hanson in pasto al pubblico italiano.
Lewis Watson è un ragazzo biondino, una vaga somiglianza con il dj Ringo, e si porta da solo sulle spalle il peso dell’apertura del concerto. Con la chitarra in mano canta le canzoni piano piano, un po’ abbastanza abituale con il timbro acustico. È simpatico e un po’ timido, riservato e sobrio in linea con la musica leggera che propone.
Composizione del pubblico: fascia 30-35 anni, donna, di bell’aspetto, abbigliamento giovanile rispolverato per l’occasione. Bicchiere di birra in mano che non sembra non finire più, richiami fluorescenti o quantomeno colorati agli ultimi anni Novanta, militanza di lungo corso da fan degli Hanson nel periodo del boom vero, una cotta per Taylor non ancora del tutto superata.
Quando i tre ometti si presentano sul palco, parte un tripudio di grida incontenibili, sproporzionato rispetto all’affluenza discreta ma non eccezionale. Sono dei signorotti ormai, anche se i lineamenti sono rimasti pressoché identici, in particolare l’agitatore di ormoni Taylor, che pare una copia di Jon Bon Jovi col torace di uno dei fratelli Bergamasco.
L’interazione col pubblico è subito ai massimi livelli, un’acclamazione di questa entità non è di certo comune, le mani della folla tendono al cielo come fosse la Pentecoste e stesse scendendo lo Spirito Santo.
Gli Hanson eseguono senza macchia un semplicissimo pop, cantato più che dignitosamente. Fanno passaggi vocali a giro come se fossero una boyband canonica, inseriscono parti al piano, sfoderano brani lenti ampiamente evitabili e acustici un po’ più gradevoli.
Una costante è il battimani: viene chiamato sul 100% e viene eseguito diligentemente con una partecipazione al 98%, hanno ancora un carisma incontenibile. Giocano a scambiarsi di posto, convincono il pubblico ad agitare le braccia a tergicristallo per dei minuti, sono praticamente onnipotenti. Sulla media distanza, inizia a diventare provante, in un delirio di eeeeh ooooh sopra e sotto il palco, coretti organizzati, un tuffo nella modernità con un singolo nuovo e grandi chiacchierate negli intermezzi.
Teniamo duro in attesa del gran finale, prima gli Hanson giocano a fare i Jackson 5, mettendoci le percussioni e finendo a suon di cover su ‘Gimme some lovin’ e ‘Long train running‘, veleggiando un po’ verso l’estenuante, poi quando arrivano i primi segni di cedimento, ché qui non siamo più ragazzini, ci piazzano ‘MMMBop‘ a ciel sereno. È sempre un pezzo efficace, incredibilmente furbo e molto più dignitoso dei singoloni latineggianti che ci tartassano in questi difficili giorni nostri. Ma le trentenni non si accontentano, le trentenni sono caricate a pallettoni e accolgono ‘If only’ a seguire con ancora più entusiasmo, prima della chiusura incattivita di ‘Fired up‘.
Tempo di un «grazii mille Malano», un saluto e il rientro per il bis: un finale ancora energico, qualche forza l’hanno tenuta da parte per un po’ di rockabilly in un’atmosfera da cover band nei pub, rifanno Chuck Berry e poi con grande romanticismo ci danno appuntamento alla prossima occasione, una promessa e una minaccia al tempo stesso.
Un’esperienza antropologicamente interessante, il legame che un gruppo come gli Hanson ha stabilito vent’anni fa con il proprio pubblico è molto più forte di quanto si possa immaginare dall’alto della nostra nuvoletta.
La risposta sono due ore di concerto e ventisette pezzi che richiedono uno sforzo sovrumano di attenzione, ma che per questa folla in visibilio è un ringraziamento che vale molto.
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