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hackedepicciotto, Berlino tatuata sull’anima

Era divisa in due, ma l’energia che la percorreva da est a ovest e viceversa non la fermavi certo con tre muri (non era uno solo) e una striscia di un centinaio di metri percorsa da guardie di confine e decorata da torri di osservazione.
Berlino: sotterranea, lunare a Est; esplosiva e ribollente a Ovest.
Né la Stasi, né la Volkpolizei  riuscivano a bloccarne il passaggio.
I due modelli economici che facevano la storia in quegli anni del Novecento mostravano muscoli e giochi di prestigio, abili a nascondere le rispettive aberrazioni, magagne e in alcuni casi orrori, quanto prodighi nel mostrare paillettes, successi ed effetti speciali.

In questa dialettica, la pioggia di soldi che lo Zio Sam lasciava cadere in ogni settore produttivo della Berlino occidentale era un potente fertilizzante per iniziative culturali di ogni tipo. I leggendari Hansa Studios, costruiti beffardamente e provocatoriamente a una decina di metri dal Muro, con vista sulle torrette di guardia della DDR, erano beneficiari di generosi sovvenzioni, di conseguenza, fare un disco costava molto meno qui che altrove. Erano anni di fermento musicale in tutta la Germania Ovest. Nella prima metà dei Settanta, band come Neu!, Can, Kraftwerk, Amon Düül, Tangerine Dream davano forma all’onda del Krautrock. La “Kosmische Musik”, come invece preferiranno sempre chiamarla i tedeschi, avrebbe influenzato molte delle cose che di lì a poco sarebbero avvenute.

Pochi anni dopo su questa onda surfarono in parecchi, non ultimo David Bowie. Ascoltatevi “Neu! ‘75” e poi, tutto d’un fiato, la trilogia “Low”, “Heroes” “Lodger” e capirete meglio da dove il Duca Bianco trovo ispirazione per una delle tante svolte della sua carriera. Non la sto troppo a menare, e sorvolo sull’elenco di artisti che in quel tempo era possibile incontrare a Schöneberg.
Certo è che nel quartiere dei locali underground, la creatività, la sperimentazione in molteplici campi artistici, influenzò a cascata buona parte della new wave, dell’elettronica, della techno, dell’industrial, del post-punk che verranno nel decennio successivo e gettò il seme che negli anni ’90 sbocciò in una Berlino riunificata, rendendola, a colpi di techno, la capitale della clubbing culture europea.

In quella Berlino Ovest Alexander Hacke c’era. Non esitò nel 1980 ad unirsi ai neonati Einstürzende Neubauten, che divennero una delle massime espressioni della Berlino alternativa.
Quarant’anni dopo Alexander Hacke c’è ancora, con la sua storica band e con molti altri progetti paralleli.
Uno di questi accanto a sua moglie, Danielle De Picciotto: statunitense di nascita, italiana di origini, a Berlino dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Scrittrice, regista, cantante (Space Cowboys e The Ocean Club), musicista e fondatrice della Love Parade.
Nel 2023 il duo ha pubblicato il sesto album, “Keepsakes”, registrato nell’Auditorium Novecento di Napoli e utilizzando gli strumenti che Ennio Morricone lasciò lì dopo una sessione di registrazione.

hackedepicciotto

Prima di ritornare a suonare all’ombra del Vesuvio, fanno tappa all’Init di Roma. L’occasione è quella della Festa delle Dee Cyborg.
Serata techno, industrial, noise, post-punk: liberazione dionisiaca e pagana.
Si annuncia il sold out e io come sempre prendo alla lettera gli orari di inizio dei concerti.
Ma non basta; considerando le consuete difficoltà di parcheggio nella zona, arrivo ancora con più anticipo.
Ma stasera, in un paio di minuti, trovo un posto a poche decine di metri dal locale: le ore d’attesa saranno due.

Mentre aspetto, mi godo l’opening dei Malatesta Analogic Tribe, ensemble formato da quattro musicisti romani di diversa matrice e provenienza: Emanuele De Lucia al didgeridoo, Davide Cipolla alla batteria, Jacopo Ruben Dell’Abate all’elettronica e campionamenti, Diego Pandiscia al contrabbasso elettrico.
Progetto ardito di techno analogica, come da nome stesso senza troppi paletti a indirizzarne il corso.
Quaranta minuti di treno ininterrotto senza sosta a 180 bpm, con beatbox e vocalizzi che prendono forme ed armoniche insolite dentro il tronco di eucalipto, batteria e basso posseduti dal demone della frenesia, samples elettronici anarco/allucinati.
Nonostante io arrivi dal workout più duro degli ultimi due anni, l’effetto è quello del dottor Ferrari su Lance Armstrong: il corpo segue la traiettoria di un’orbita anarcocosmica. Che non vuol dire un cazzo, ma rende l’idea e la lascio così come la leggete voi.

Durante il cambio palco, Helena Velena, l’organizzatrice della serata, arringa il pubblico con considerazioni sulle distorsioni del pensiero di Marx operate dal pensiero leninista stesso, sui rapporti tra marxismo e sviluppo tecnologico, sul conservatorismo della sinistra e su un futuro in cui ci avviamo tutti ad essere cyborg. Tutti tranne chi non lo è già.
Il tempo di acquistare consapevolezza di esserlo un cyborg dal 1993 e alle 23.07 tocca ad Alexander Hacke e Danielle De Picciotto – ovvero, hackedepicciotto.

Le atmosfere dell’apertura sono in un punto lungo un continuum tra l’eleganza celeste dei Dead Can Dance e la drammaticità solenne di Ennio Morricone. I vocalizzi cavernosi di Hacke ci portano in una dimensione rituale e sepolcrale, scandita da un’inesorabile percuotere di un timpano. Qualche problema di ascolto e amplificazione non si ripercuote sulla qualità e l’intensità della performance. Gli effetti di pitch aggiungono tenebra ai toni iperdistorti della chitarra. Sacralità e paganesimo a braccetto, isomorfe con le svisate medioevali di violino di Danielle De Picciotto e le sequenze tribali dei loop di batteria.

L’artista americana alterna il violino con l’autoharp, un cordofono simile al salterio non nuovo a incursioni nel rock (Brian Jones, PJ Harvey e Joni Mitchell) e la ghironda.
Carpiati folk e medioevali nel mare nero di un industrial martellante e ossessivo, addolcito da momenti di più ampio respiro con le armonizzazioni vocali dei due artisti.
Danze del fuoco costruite su giri ossessivi di basso e percussioni e cesellate dal pizzicato su corde. Dedicano una canzone ai loro padri.
Il bordone tenuto dalla ghironda è scandito da una tubular bell suonata a morto, l’incedere di un Moloc che chiama sacrifici umani, le distorsioni estreme della chitarra.
A quali padri stanno pensando?
Forse non ai padri biologici, forse ai padri della specie umana, risultato di esperimenti di intelligenze superiori e terribili, o di un beffardo gioco del caso.

In ‘Meteor’s Rain’ affrontano la questione del rapporto tra uomo e natura: percussioni imponenti sorreggono un ostinato armonico che si muove su una scala discendente.
L’ossessione martellante è un concetto cardine della loro musica.
Energia primordiale di una natura potente e misericordiosa nei confronti dell’umano ma che attua la sua vendetta, trascinandoci in un vortice senza uscita, turbinoso, frastornante, di una sequenza martellante a 204 bpm.
Sonorità industrial, spietate, messe ancor più in risalto dai richiami sacri della ghironda. 
È la chiusura del concerto con ‘The Silver Threshold’, title track dell’omonimo lavoro uscito nel 2021, che Danielle De Picciotto continua stranamente a presentare come il loro ultimo album, nonostante la recente uscita di “Keepsakes”.

Salutano con inchini ripetuti e sincronizzati, comunicando dolcezza, rispetto per il pubblico e amore per l’arte e il loro lavoro. Sono chiamati a gran voce e non si fanno attendere per il bis. Ci salutano con ‘Grace’, un brano tratto da “Perseverantia”, uscito nel 2016. L’autoharp suona accordi delicati e intimisti. La chitarra di Hacke, per la prima volta dall’inizio del set, diventa morbida e carezzevole e ci regala nuovamente aperture e prospettive del Maestro Morricone. Racconta di solitudini notturne e malinconiche, di viaggi alla scoperta di un mondo e di un’umanità da preservare. Di una speranza che possiamo e dobbiamo mantenere ma che abbiamo l’obbligo di rendere realtà.

Tutto questo mentre mi passa davanti la Berlino Ovest  del decennio 1979-1989.
Quella raccontata magistralmente del Docufilm B-Movie, quella di Nick Cave e della sua stanza da letto con appese alle pareti opere di arte gotica, della discoteca Dschungel, al 53 di Nürnberger Straße 53, citata da David Bowie in ‘Where Are We Now‘.
La Berlino Ovest dei palazzi di Gropiusstadt, dove una ragazzina di nome Christiane Vera Felscherinov guardava la sua immagine riflessa da uno specchio e provava ad attraversarlo.
La ragazzina che con una effe puntata sarebbe diventata famosa in tutto il modo e, in seguito, la fidanzata di Alexander Hacke.
La Berlino Ovest che sfilava davanti ai miei occhi di bambino abbagliato dalla pista di pattinaggio dell’Europa Center e disorientato davanti alle prostitute d’alto bordo sulla Ku’damm e le ragazzine tossiche sulla Kurfürstenstraße.
Quella che, insieme all’altra dietro a quel Muro, quella dell’Utopia, qualcuno ha tatuato sulla mia anima.
Indelebilmente.

Roma, 19 gennaio 2024

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© Tommaso Notarangelo

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