Glenn Hughes, the last man standing
«Tutto quello che posso dire è che sto facendo una cosa rispettosa suonando queste canzoni. Potrei essere l’ultimo uomo a farlo, e ho intenzione di abbracciarle, dargli un po’ di amore e riportarle ai fan»
Così the voice of rock descrive le motivazioni che negli ultimi anni lo hanno spinto a portare in giro per il mondo l’eredità di quello che sono stati i Deep Purple tra il 1973 ed il 1976, le cosiddette formazioni Mark III e Mark IV. Tra scomparse premature (il povero Tommy Bolin) e meno premature ma comunque tragiche (Jon Lord), con un Blackmore partito per la tangente ed impegnato a suonare madrigali alla sua teutonica dolce metà ed un Coverdale vocalmente fuori gioco, Glenn Hughes è davvero the last man standing. Colui che ancora può credibilmente rendere omaggio (e giustizia) a dischi epocali come “Burn”, “Strormbringer” e, seppur in misura minore, “Come Taste The Band”.
A voler ben guardare, di tutti i Purple all’epoca era quello forse messo peggio. Precipitato in una spirale di dipendenza da alcool e cocaina, rischiò di mettere prematuramente fine ad una carriera strabiliante che lo aveva visto fondare i Trapeze, entrare nei Purple ed affiancare in una moltitudine di progetti gente del calibro Pat Travers, Pat Thrall, Tony Iommi e Gary Moore. La svolta sul finire degli ‘80s, quando si disintossica ritrovando la voglia di vivere ed una rinnovata spiritualità che lo ha avvicinato a Dio.
In una vecchia intervista gli chiesi quale fosse il segreto della sua voce. «Vedi» – mi disse – «questa non è la ‘mia’ voce, questa voce è un dono, un dono divino. Il dono che attraverso me Dio sta facendo al mondo». Potremmo sindacare a profusione su quelle parole, ma il dato di fatto è che da quelle corde vocali escono davvero suoni che rasentano la divinità.
Sul palco dell’Alcatraz Glenn si presenta in forma smagliante: basso a tracolla, capelli lunghissimi, occhiali da sole ed un sorriso accecante stile Durbans, a testimonianza di un lavoro odontotecnico particolarmente ben riuscito. Ad accompagnarlo, il fido Soren Andersen alla chitarra, un batterista assolutamente d’eccezione come l’irlandese Ash Sheehan, ed il giovane tastierista olandese Bob Fridzema che i genitori devono aver svezzato a pane e Jon Lord. Sono le 21:00 ed il viaggio a ritroso nel tempo e nella storia dell’hard rock comincia con una ‘Stormbringer’ da brividi, che porta immediatamente a mille l’entusiasmo di un pubblico che ha riempito fin quasi al sold-out il locale di Via Valtellina.
Il 15 febbraio di quest’anno ha segnato il cinquantesimo anniversario dell’uscita di “Burn”, inevitabile quindi la sua celebrazione che parte con l’accoppiata ‘Might Just Take Your Life’ e ‘Sail Away’. La voce del rock risuona cristallina all’interno dell’Alcatraz, investendo in pieno un pubblico adorante la cui età media è di poco superiore a quelle dell’album.
È un Glenn Hughes particolarmente emotivo e ciarliero quello di questa sera. Tra un brano e l’altro non perde occasione per sottolineare l’importanza che rivestono per lui i fan, e per prendersi lunghe pause in cui rievocare aneddoti di un passato oramai remoto, ricordando ed onorando la figura di Jon Lord, piuttosto che il carattere, diciamo, ‘peculiare’ di Ritchie Blackmore o l’amicizia con Tommy Bolin, con cui scrisse (probabilmente sotto l’influsso di diverse sostanze non meglio definite) quella ‘Getting Tighter’ che farà bella comparsa più in là nel set. D’altronde, per quanto in forma, stiamo sempre parlando di un ultrasettantenne, e queste pause pur cariche di emotività cadono casualmente a fagiolo nei momenti in cui è necessario recuperare un po’ di fiato e caricarsi per i pezzi seguenti.
Qui il mestiere aiuta alla grande, ed il pregio del buon Glenn è di rendere anche queste pause una parte integrante dello show. Come, per esempio, nel medley che a metà concerto parte da ‘You Fool No One’ e si sviluppa in una lunga jam a tinte blues, incorporando una fantastica ‘High Ball Shooter’, un bel solo di Soren Andersen e l’inevitabile assolo di batteria (ma quanto è bravo questo Ash Sheenan?), bellissimo ma forse tirato un po’ troppo in lungo. Gli applausi diventano scroscianti quando in chiusura di jam la band ritorna sulle coordinate di ‘You Fool No One’.
Con ‘Mistreated’, probabilmente il pezzo più atteso della serata, la voce di Glenn Hughes si manifesta in tutta la sua magistrale potenza e versatilità, con quei toni blues intrisi di passione e sudore che hanno fatto rigare di lacrime i volti di parecchie persone presenti in sala. Siamo quasi in dirittura d’arrivo, ma i colpi al cuore non sono ancora finiti, perché a chiudere il main-set arriva il capolavoro di ‘Come Taste The Band’, quella ‘Keep On Moving’ scritta a quattro mani con Coverdale, e che farà muovere il fondoschiena a tutti coloro che hanno affollato l’Alcatraz questa sera.
Pochi minuti di pausa permettono ancora una volta al buon Glenn di recuperare ossigeno ed energia, assolutamente necessari per gestire l’assalto finale. Sorensen parte con l’inconfondibile riff di ‘Burn’ e nel locale si scatena il delirio. Il pezzo è uno dei più iconici della storia del rock, uno di quei brani che ti scuote dentro e che non smetteresti mai di ascoltare. Interpretazione meravigliosa da parte di tutta la band, con la voce di Hughes che raggiunge ancora vette irraggiungibili per gran parte del genere umano, che comunque almeno ci prova, ed è davvero difficile non farsi cogliere dai brividi nel sentire ogni singola persona presente urlare ‘Burn’ insieme al vecchio Glenn.
Si chiude così lo show dedicato ai Deep Purple, ma sappiamo tutti che tra un tour e l’altro Hughes ha avuto modo di registrare insieme a Joe Bonamassa, Jason Bonham e Derek Sherinian il quinto disco di quella meravigliosa creatura che sono i Black Country Communion. Non resta che incrociare le dita e sperare che l’album non rimanga fine a sé stesso ma diventi finalmente oggetto di un tour come Dio comanda.