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Ghostpoet live a Segrate (MI): l’azzardo dei contrasti

Il mercoledì sera del Circolo Magnolia sta diventando una piacevole abitudine.
Il 28 febbraio, a farci compagnia dal suggestivo palco interno del club più vivace di Milano, è Ghostpoet, un ragazzone di colore che mischiando tanti generi e tante influenze ha realizzato finora quattro album, l’ultimo dei quali è “Dark days + Canapés“, uscito nel 2017 e carico di sonorità di impronta trip hop. Nessuna apertura prevista, ci piazziamo subito fronte palco e vediamo cosa ci può regalare insieme alla sua band.

Il primo impatto è un pezzo con cui Ghostpoet piazza un parlato da Faithless loquace su un suono disimpegnato e dal timbro indie rock, guidato da un giro interessante e ruffiano di basso e batteria.
Il tempo dei pezzi scorre rapido, sempre in rincorsa, e ci pensa la voce a rallentare il tutto.
Questo particolare connubio/contrasto viene riempito da impercettibili basi, che giacciono lontane sullo sfondo, mentre in primo piano insistono dei riff semplici e decisi.

Quando entrano in gioco le tastiere, le sonorità di Ghostpoet prendono la via della più canonica musica black contemporanea, corredati dalla seconda voce femminile che porta un’aria smaccatamente trip hop. Il synth si insinua pesante, la batteria svanisce e il piglio diventa più trendy, ma così facendo si perdono per strada i contrasti. Rimane giusto la chitarra, blanda nella struttura ma decisa nel timbro.

Ghostpoet raggiunge vette di cupezza ansiogena quando la batteria prende dei tempi anomali e inizia ad andarsene per conto proprio. Le combinazioni iniziano pian piano ad esaurirsi, attingendo al più classico repertorio di elettronica mischiata ad hip hop agitato da balera, diventa tutto un one-two one-two dalle tinte cupe e ispirate.

I toni sono smorzati e la parte vocale assume una posizione assolutamente centrale, senza però sfruttare appieno la diversificazione di queste voci. La peculiarità di Ghostpoet si fa nuovamente degna di note quando rientrano le chitarre a ribaltare gli equilibri e ad alzare i toni. Ci si prende pure qualche riverbero, quasi da surf rock di altri decenni, prima di ‘Sloth trot‘, morbida ma decisa, lunghissima in chiusura.

È il momento in cui Ghostpoet spara le cartucce migliori, spaziando e mescolando senza risparmiarsi nulla: violini distorti, pezzi a tutto basso, chitarre ruggenti a volumi carichi, quasi da blando headbanging, chitarre spianate e ruvide fino alla chiusura del set con ‘Freakshow‘. L’encore invece regala un paio di pezzi guidati dalle tastiere e dai bassi sintetici, con sprazzi di chitarra solo nel finale. Le combinazioni di Ghostpoet sono azzardate e accattivanti, rendono bene dal vivo, la struttura rischia di diventare “molle” quando si percorrono generi convenzionali, ma quando l’estro prende il sopravvento non ci sono critiche che possano essere mosse.


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