Ghost, divide et impera
Nel disperato tentativo di arrivare in tempo per vedere i Lucifer, schedulati per le ore 19:00, esco dalla fermata della metropolitana di un Piazzale Lotto in preda ad una calura quasi estiva.
Il primo sguardo è sconfortante: sono da poco passate le 18:30, e lungo il perimetro delle mura che racchiudono l’Ippodromo SNAI San Siro si snoda una coda chilometrica di fan in attesa di entrare. Coda che peraltro sembra non avanzare se non alla velocità media di un bradipo tridattilo. Timidamente mi affaccio al cancello di ingresso e chiedo lumi per il ritiro dell’accredito stampa: miracolosamente le transenne si aprono e vengo indirizzato al botteghino, a cui giungo trafitto da qualche migliaio di occhiate cariche d’odio.
Ragazzi, avete tutta la mia comprensione e solidarietà, ma questo sporco lavoro qualcuno lo dovrà pur fare.
Dalle parti del botteghino si vocifera di qualche lievissimo ritardo (non ho ben capito se a causa delle band o altro), fatto sta che finalmente arrivo sotto al palco, ai piedi del quale si sono accumulate nel frattempo solo poche centinaia di persone, proprio mentre i Lucifer terminano il sound-check e si apprestano a dare il via al loro show, alla presenza di un pubblico decisamente sparuto: da quanto ho potuto capire, gran parte delle persone non hanno potuto fare altro che ascoltarli mentre attendevano che si smaltisse la coda.
Da fan della band, ero parecchio curioso di vedere nuovamente all’opera Johanna Platow e i suoi Lucifer, oggi presenti a Milano in formazione rimaneggiata causa assenza del mito Nicke Andersson, che per la cronaca della Johanna è l’attuale consorte.
Nicke è in tour con gli Hellacopters (che qui in Italia, mai eh?), e per rimpiazzarlo temporaneamente è stato chiamato Danner Heaster degli Svartanatt.
Il tempo a disposizione dei Lucifer, freschi di firma con la Nuclear Blast e di rilascio del nuovo singolo, è di dimensioni minimali, quindi zero chiacchiere e via di corsa con i (miseri) 5 brani che costituiscono la loro set-list odierna, tra cui per l’appunto il nuovo singolo ‘A Coffin Has No Silver Lining‘, un brano che nonostante mi abbia creato qualche problema inziale (suona troppo dannatamente Scorpions) sto finalmente iniziando a metabolizzare, ma che in ogni caso allontana sempre più i Lucifer dall’occulto per sterzare verso sonorità più classicamente retro-rock, tanto che dal primo omonimo album , per esempio, questa sera non è stato proposto alcunché.
Resta il fatto che band di questo genere è meglio (molto meglio) gustarsele nei club piuttosto che sui grandi palchi degli eventi estivi.
Nel frattempo, il flusso continuo di gente che finalmente è riuscita ad accedere all’Ippodromo ha progressivamente riempito l’area antistante il palco, sul quale si lavora freneticamente per preparare il terreno ai Death SS, la leggenda del metal italiano (e non solo) che sulle inquietanti note dell’intro ‘Ave Satani‘ si appresta a dare inizio al proprio personalissimo sabba nero.
Steve Sylvester, una carriera ultra-quarantennale alle spalle ed un fisico ancora invidiabile, prende possesso (ovviamente nel senso demoniaco del termine) di uno stage su cui spiccano le tre grandi croci che mimetizzano i microfoni.
‘Peace Of Mind‘ apre un set solido, tecnicamente ineccepibile ed inevitabilmente teatrale, che ripercorre a gran velocità e senza troppe concessioni all’interazione con il pubblico la carriera discografica dei Death SS, per un concerto che in un’oretta circa è delizia per le orecchie ma anche per gli occhi: tra costumi di scena, giochi pirotecnici e la conturbante esibizione di Dhalila e Jessica, le due performer che abitualmente allietano gli show della band e che ben poco spazio lasciano all’immaginazione, non possiamo che riconoscere al cerimoniere Steve Sylvester la grande abilità nel mettere in piedi uno show che è tale a 360 gradi.
Mentre si spengono gli ultimi echi del devasto sonoro generato dai Death SS, un enorme telo bianco viene calato dall’alto per celare al pubblico la vista del palco, sul quale gli addetti ai lavori iniziano ad approntare la scenografia che farà da sfondo al concerto dei protagonisti della serata.
Ne approfitto per guardarmi intorno solo per realizzare di essere circondato da uno stuolo di ragazzine che neanche ai concerti dei Duran Duran negli anni ’80, e da un pubblico talmente eterogeneo tra cui spuntano una moltitudine di papi, preti, suore e relative variazioni sul tema in puro stile cosplay: dite quel che volete di Tobias Forge, ma il ragazzo non ne ha sbagliata una e posso solo immaginare il sorriso che gli si stamperà sul volto alla vista di questa marea umana in totale delirio fantasmatico. D’altronde, chi non se la ghignerebbe sotto i baffi quando in meno di una decina di anni riesci a passare dai piccoli club alle grandi arene estive.
Nel frattempo, dall’impianto dell’Ippodromo inizia a diffondersi il ‘Miserere Mei, Deus‘ che funge da intro fino allo spegnimento delle luci ed alla caduta del grande telo bianco di cui sopra, che scopre in tutta la sua magniloquenza la scenografia che fa da sfondo allo show dei Ghost: siamo all’interno di una cattedrale gotica, dominate dalle enormi variopinte vetrate davanti alle quali troviamo l’altare su cui posa la batteria, e tutta una serie di piattaforme sulle quali si alterneranno Forge, i Nameless Ghouls e per l’occasione anche le due Nameless Ghoulettes che fungono da coriste.
Il concerto si apre così come si apre “Impera”, con ‘Kaisarion‘.
Il comparto luci è fenomenale, i suoni (per lo meno dalla mia posizione abbastanza centrale) oserei dire perfetti: è chiaro che dietro questo tour c’è un grande investimento sia in termini di risorse che di tecnologia, il che conferisce al tutto un alone di estrema professionalità.
Forge è padrone assoluto dello stage, che percorre in lungo ed in largo nonostante gli innumerevoli cambi di costume debbano risultare non poco affaticanti, soprattutto quando te li devi portare addosso per quasi due ore di concerto.
Per non parlare dei musicisti, costretti a suonare sotto i riflettori con una bardatura che risulta soffocante solo aguardarla. La scaletta è prevedibile ma non per questo meno efficace.
Forge ha il sacro dono di rendere ogni canzone così facilmente assimilabile da entrarti in testa pressoché immediatamente.
E poco importa se in ognuno di quei pezzi ci puoi ritrovare un qualcosa di già sentito, perché quel già sentito è miscelato così bene da risultare, nel suo piccolo, quasi originale.
Non stupiamoci quindi se con lo scorrere dei brani troviamo i richiami più disparati, dai Blue Oyster Cult agli Abba passando per i Def Leppard ed i Mercyful Fate: è su questa commistione di sacro e profano, anche musicalmente parlando intendo, che Forge ha costruito il suo modo di scrivere canzoni e, amatelo o odiatelo, i fatti stanno dando ragione a lui.
Detto questo, dal punto di vista dello spettatore non credo ci sa molto da ridire, lo spettacolo che offrono oggi i Ghost teme davvero pochi rivali, il rock’n’ roll deve primariamente essere questo, intrattenimento allo stato brado, trasgressione, una gioia sia per le orecchie che per gli occhi.
Non a caso l’ossatura della setlist si basa sui tre dischi che hanno decretato la svolta della carriera della band: già in “Meliora” si avvertivano i primi echi di un cambio di marcia verso lidi più accessibili ed appetibili da un pubblico molto più numeroso di quello che ne aveva fino ad allora seguito le gesta, poi perfezionato e definitivamente concretizzato con “Prequelle” e soprattutto con “Impera”.
D’altronde, brani come ‘Dance Macabre‘, ‘Spillways‘, ‘Rats‘ ti si infilano nel cervello per non uscirne più, come peraltro dimostra l’accoglienza del pubblico quando vengono proposti in sede live.
Sul palco Forge rievoca tutti i Papi ed i Cardinali dell’immaginario ghostiano, ma per il sottoscritto è pura gioia rivedere sul palco il Papa sassofonista, protagonista assoluto in ‘Miasma‘, uno dei pezzi rock strumentali più incisivi che abbia mai ascoltato e reso totalmente accattivante proprio da quel sax assassino che entra a sorpresa e ti rivolta come un calzino.
Ruffiano all’inverosimile, Forge non dimostra abilità solo nel comporre brani accattivanti, ma anche di sapere perfettamente come si costruisce una scaletta acchiappa-applausi.
Anche quando ci deve infilare dentro una cover, calando l’asso dei Genesis di ‘Jesus He Knows Me‘: una rilettura tanto esilarante ed ultra-catchy quanto parecchio inquietante se vista con gli occhi di chi conosce i testi dei Ghost.
Le quasi due ore di concerto scorrono via talmente bene che quasi ti sorprendi quando ti rendi conto che il main-set è già finito, ed arriva il momento degli encore, per il quale Forge permette non una, non due ma ben tre canzoni, infilando in rapida sequenza due assi come ‘Kiss The Go-Goat‘, ‘Dance Macabre‘ lasciando a ‘Square Hammer‘ l’onore e l’onere di chiudere definitivamente uno spettacolo che lascia tutti visibilmente soddisfatti e, soprattutto, divertiti.
I Ghost non ammettono mezze misure, si amano o si odiano, ma chi li odia di certo non era qui questa sera, e chi li ama può tornare a casa contento per uno spettacolo che, una volta tanto, è valso ogni singolo euro speso per l’acquisto del biglietto.