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“Get Your Ass Out Of The Chairs” – Il fuoco di Walter Trout

Il Blues con la maiuscola fa tappa a Roma

Al Crossroads, lo storico chitarrista statunitense sbarca con il “Broken Tour 2024”

Roma, 29 novembre 2024

Curiosità è il sentimento che mi accompagna lungo i chilometri tra Roma e Bracciano che mi separano dal concerto di Walter Trout. Il suo percorso artistico parla da sé: gli inizi accanto a John Lee Hooker, il diventare la chitarra solista dei Bluesbreakers di John Mayall, gli anni trascorsi con i Canned Heat e una intensa e sofferta carriera solistica.

Così come la sua vita, non potrebbe essere diversamente per chi si è consacrato al blues. Al successo e ai riconoscimenti pubblici, ha fatto da contraltare l’abisso in cui precipitava una volta spente le luci del palco. La discesa nell’inferno personale delle dipendenze e dell’abuso di sostanze. Fino ad arrivare alla cirrosi epatica che, nel 2014 lo costrinse a un trapianto di fegato e a pagare un prezzo altissimo.

Otto mesi trascorsi in un letto d’ospedale, riportando gravi danni neurologici che pregiudicarono la parola e la capacità di riconoscere le persone, familiari inclusi e di suonare la chitarra. Reimparò a parlare, e trascorse un anno intero prima di riuscire a recuperare le sue abilità chitarristiche. Una storia personale travagliata e mostri in numero sufficiente a caricare la sua musica d’intensità tale da garantirmi il giusto impatto emotivo.

Walter Trout
Walter Trout

Secondo una convinzione diffusa gli artisti libererebbero i demoni che abitano la loro anima nelle loro creazioni. Questa prospettiva può essere ribaltata se si assume l’idea che il fine dell’atto d’arte non sia la liberazione dei mostri, ma il loro imprigionamento. Resi innocui una volta rinchiusi in un testo, in una melodia, in un dipinto. Esorcizzati una volta diventati bellezza, sia per l’artista che offre loro dimora, sia per chi, trovandoseli davanti vestiti di note, colori o parole, può più facilmente riconoscere i propri.

Se è vero per ogni forma espressiva, lo è ancor di più quando questa stessa è passata alla storia come “musica del diavolo”. Quando mi trovo al cospetto di artisti come Walter Trout, è automatico pensare a quanto sopra scritto. Possessione: è la parola che spiega l’effetto del blues, che potrebbe chiudere qui il racconto della serata. Conosci già tutto; quelle le note, quella la struttura, le maledette dodici battute. Sai da che parte ti porterà, e per quanto nota sia la destinazione finale, il sapore della fatica, del sudore, della terra in bocca, della sconfitta entrerà a far parte di te. E ti ci abbandonerai, perché il blues sa adularti, sa sedurti, sa accoglierti. E non puoi farci nulla, perché non c’è un cazzo da fare: sei sudore, fatica, terra in bocca anche tu.

Pensi che il palco può essere la sola dimensione di vita di persone come Walter Trout. Quello di stasera un tempo mi avrebbe mandato al manicomio e che dovrebbe essere oggetto di studio per tutti quelli che iniziano a suonare la chitarra. Segni particolari: assenza di qualsivoglia effetto a pedale per chitarra. Soltanto la sua fedele Stratocaster, le sue dita e la naturale saturazione del suo Mesa Boogie. Suono carico di vibrato, violento e doloroso come la sua vita.

Walter Trout

Lo accompagnano il fido Michael Leasure alla batteria, Roland Bakker al piano, un mostro sacro come John Avila al basso (ex Oingo Boingo, session man di Bob Dylan, Joe Satriani, Stevie Vai, Steven Tyler) e il giovane musicista e cantautore Brett Smith Daniels alla seconda chitarra. Eccellenti musicisti che completano la giusta miscela per incendiare il Crossroads. Sulla scena Walter Trout si comporta come una vecchia volpe del palcoscenico, con l’umorismo e l’autoironia del sopravvissuto, quando ci ricorda di avere 73 anni all’anagrafe, 25 quando suona e 95 quando si toglie il cappello, mostrando una chioma pallido ricordo di quella che fu.

E poi il fuoco del blues, quello più grintoso, che ti fa saltare sulla sedia, e quello arrancante, faticoso, doloroso e maledetto. Ma anche fuoco sacro e solenne, quando ricorda e omaggia John Mayall, scomparso nel luglio scorso, che proprio stasera avrebbe festeggiato i suoi 91 anni. ‘Say Goodbye To The Blues’ è un brano a lui dedicato che esegue con la massima espressività, fino a lasciare solo la sua chitarra sul pianissimo della band. E poi il crescere dinamico fino all’invocazione “play on through the darkest night”.

Walter Trout
Walter Trout

Sciorina tutto il suo repertorio, dai boogie ai brani con sonorità e groove più hard. Il suo faccia a faccia con la malattia e le sue conseguenze è raccontato in ‘Battle Scars’, mentre in “We Are All in This Together”, prende il suo spazio Brett Smith Daniels, suono tagliente e tecnica della mano destra “knopfleriana”, complemento alle rotondità della chitarra di Walter Trout. Giganteggiano le improvvisazioni al piano elettrico di Roland Bakker, su una delle quali l’entrata della Delaney di Trout mi shakera i neurotrasmettitori facendomi saltare sulla sedia, posseduto dalla taranta.

Perdita di controllo, dopamina, contrazioni muscolari involontarie. È la “musica del diavolo”, si ascolta così. Una liberazione del corpo, non per tutti stasera. Il pubblico ascolta il concerto a pancia piena, seduto in modo composto e applaudendo ordinatamente alla fine di ogni brano. Qualche urletto ogni tanto, ma contenuto. Non sia mai si esageri e si perda quell’aplomb radical chic tanto caro in certe situazioni.

Walter Trout

Eh già, perché sembra a volte esserci distonia tra il fuoco sul palco e l’algido compiacimento della platea. I presenti apprezzano la musica, e ci mancherebbe, ma sembrano porsi davanti all’artista come i benestanti borghesi dell’upper east side davanti agli spettacoli del Cotton Club. Quando la band rientra per il bis, Walter Trout non va troppo per il sottile: “get your ass out of the chairs” è un ordine.  Finalmente è il suono giusto. Quello dei corpi che si liberano dalle catene di una schiavitù invisibile e ben più difficile da sconfiggere.

Ad Anfield Road, il leggendario stadio del Liverpool, un cartello accoglie le squadre che entrano in campo. La scritta “This Is Anfield” appare ai giocatori alla fine tunnel, subito prima di entrare sul terreno verde. A ricordare ai ventidue protagonisti dove stanno per entrare, semmai lo avessero dimenticato. Chissà che a qualcuno un giorno non venga in mente di fare altrettanto all’entrata di un locale consacrato al rock e al blues.  “Get Your Ass Out Of the Chairs” per ricordare a chi ne varcasse la soglia, cosa sia venuto a fare.

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