Garbage, il ritorno tanto atteso
Occorre usare il passato remoto per ricordare l’ultima volta in cui i Garbage misero piede per l’ultima volta in Europa. Era l’estate pre-pandemica del 2019, e quel tour li vide passare anche dalle nostre parti, all’Anfiteatro Del Vittoriale di Gardone Riviera. In quella occasione suonarono tra le altre anche ‘On Fire’, un brano nuovo destinato a comparire su “No Gods, No Masters”, un disco che vide la luce solo un paio di anni più tardi ma che contribuì significativamente a riportare in auge i ricordi, invero un po’ sbiaditi, di quella che era stata una delle formazioni più significative del panorama alternative.
“No Gods” è per chi scrive la cosa migliore partorita dalla band di Madison dai tempi di “Bleed Like Me”, guarda caso oggetto di ristampa proprio nei primi mesi di quest’anno, e ragione più che sufficiente per alimentare a dismisura il desiderio di rivedere i Garbage calcare un palco nostrano. Un desiderio prontamente esaudito da Barley Arts, che offre alla band la possibilità di inaugurare il suo primo tour europeo da cinque anni a questa parte qui a Milano, nella verde cornice del Circolo Magnolia. Il concerto è stato debitamente promosso, ed a quanto pare il desiderio di chi scrive era condiviso da parecchi, visto il grado di affollamento che sta gratificando il locale in riva all’Idroscalo.
Accediamo all’area concerti mentre sul palco si sta già esibendo da diversi minuti Romina Falconi, cantautrice romana dalla notevole presenza scenica ma le cui coordinate musicali si trovano ad una distanza siderale da quelle del vostro umile reporter, che approfitta del (non moltissimo) tempo a disposizione per rifocillarsi ed abbeverarsi, in attesa che i protagonisti della serata salgano sul palco ed inaugurino questo nuovo tour.
Trattandosi di prima data e considerati i diversi mesi di fermo sul fronte live, pensiamo sia legittimo interrogarsi su quello che sarà l’effettivo grado di rodaggio della band in questa serata. In realtà non ce n’è il tempo, sono già arrivate le 21:20 e sulle note strumentali di una ‘Happy Home’ diffusa dal PE, Butch Vig prende posizione alla batteria mentre ai suoi lati si posizionano Steve Marker e Duke Erikson. Un po’ defilata nelle retrovie, vediamo comparire una minuta figura femminile di basso dotata – si tratta di Ginger Pooley degli Smashing Pumpkins, chiamata per questo tour a coprire il posto lasciato vacante da Eric Avery, fresco di rientro in quei Jane’s Addiction che aveva fondato insieme a Perry Farrell. L’attesa del pubblico però è tutta per Shirley Manson, accolta da un’ovazione quando si manifesta sul palco avvolta in un vestito nero arricchito da un’abbondanza di tulle, sulla cui sobrietà potremmo avanzare qualche riserva.
Giusto il tempo di assaporare le prime note di ‘#1 Crush’ (anno domini 1995, era il lato B del singolo d’esordio) e quei dubbi su cui ci si interrogava svaporano immediatamente, spazzati via da una band che appare subito in gran forma e già ben amalgamata, forse un pelo penalizzata dai volumi, ancora una volta tarati un po’ troppo verso il basso. Ma la prima, vera esplosione di entusiasmo arriva subito dopo ‘Godhead’. «You can look but you can’t touch» inizia a cantare Shirley prima che i chitarroni della premiata ditta Marker/Erikson attacchino l’inconfondibile riff di ‘I Think I’m Paranoid’, trasformando il parterre in un dancefloor open-air e facendo così decollare definitivamente il concerto. Concerto che prosegue con una graditissima ‘Cherry Lips (Go Baby Go)’ e che per due ore abbondanti vedrà i Garbage ripercorrere le tappe fondamentali di una carriera oramai ultratrentennale, con l’unica pecca (quasi imperdonabile per chi scrive) di una ‘Queer’ che brilla per la sua assenza dalla set-list.
La Manson è particolarmente ciarliera questa sera, e a parte le innumerevoli volte in cui si è scusata per non sapere andare oltre un ‘Grazie mille Milano’ nella nostra lingua, si sofferma spesso per introdurre e commentare i brani più significativi, intavolando una sorta di dialogo monodirezionale con il pubblico. Come quando, presentando ‘The Men Who Rule The Wolrd’, non riesce a trattenere l’amarezza nel ricordare quanto si sia sentita svilita, sottovalutata ed ignorata, in quanto donna in una band di uomini. Non tanto in seno alla band, ci tiene a precisare, ma più in generale, da un’industria discografica dominata da uomini, e da tutto ciò che gli gira intorno, stampa inclusa.
Nel suo appassionato rivolgersi al pubblico è divertente vederla sforzarsi di dominare il forte accento scozzese, che però sale subito a galla non appena il discorso si fa più accalorato e personale, infilando nel discorso una sequela di F-words che farebbero impallidire anche i più rudi scaricatori del porto di Leith. Il concerto ha superato il giro di boa quando arriva il momento della super-hit ‘Stupid Girl’, che deve aver risvegliato dal suo torpore anche il fonico: finalmente i volumi si alzano, e il concerto prende ulteriormente quota. Tra gli highlights è doveroso citare la splendida cover di ‘Cities In The Dust’ di Siouxsie & The Banshees, introdotta da un lungo monologo sull’impatto che ha avuto la Sioux sulla formazione musicale della Manson. Il main-set si conclude con ‘Wow’, il loro singolo d’esordio – una scelta interessante, che si ricollega a quella ‘#1 Crush’ con cui hanno aperto lo show, che all’epica uscì proprio come B-side di quel singolo, in una sorta di metaforica chiusura del cerchio.
Nel giro di pochi minuti la band ritorna sul palco per gli encore, con Shirley che chiede al pubblico di scegliere tra una ballata ed «il mio pezzo preferito, quello che adoro di più cantare». L’applausometro decreta per quest’ultima, ed è subito una meravigliosa ‘Milk’ che lascia poi spazio al gran finale con ‘Only Happy When It Rains’.
Si accendono le luci del Magnolia, ma Shirley è ancora sul palco, ad uno ad uno chiama accanto a sé i compagni di squadra, per presentarli e fare in modo che anche loro salutino il pubblico, nonostante la fatica di questo primo concerto del tour si legga inequivocabilmente sui loro volti. Butch Vig non fatica ad ammetterlo, l’età avanza e dichiara senza mezzi termini di essere distrutto dalla fatica e dal caldo. Fa quasi strano vedere questa sorta di leggenda vivente dell’alt-rock sorridere affaticato sul palco, e pensare che quelle mani che per due ore abbondanti hanno impugnato le bacchette, sono le stesse mani che hanno regalato al rock uno dei suoi album più importanti, se non i più importante. E se non sapete di cosa stiamo parlando, forse state leggendo il magazine sbagliato.