Fantastic Negrito, non è solo questione di musica
La cronica carenza degli spazi per concerti è quella di Roma.
Il traffico sulla Cassia fuori Roma è quello del venerdì sera.
La direzione è il Crossroads, uno dei pochi, ma buoni, avamposti per i live a Roma, anche se, dalle sue parti, della Città Eterna ci sono solo i cinghiali che puoi incontrare a Roma nord.
L’umidità è quella di New Orleans, Louisiana.
Mentre il messaggio vocale delle 19 è di quelli che ti dicono: «alle ventuno c’è un opening non segnalato sulle presentazioni dell’evento; quindi, cerca di essere lì in tempo».
Sono lì per le venti, con una fame degna di un post workout intensivo e con la fortuna di chi riesce a trovare l’unico tavolo rimasto libero dalla prenotazione
E non è la sola fortuna della serata.
L’altra è l’opportunità di godermi un’apertura che non mi aspettavo.
Abbandono il tavolo per avvicinarmi al palco per ascoltare da vicino un insolito, almeno geograficamente, duo sardo-brianzolo.
Francesco Piu, voce e chitarra, accompagnato da Silvio Centamore alla batteria, secondo una formula ormai collaudata che pare aver risolto la cronica problema della mancanza di bassisti.
I due partono a mille, senza risparmiarsi – e tirano dentro in un attimo il pubblico già presente, che risponde e apprezza oltremodo.
Il bluesman di Sassari alterna un’inusuale chitarra baritona, con accordatura più bassa, con una sei corde tradizionale in open tuning.
Il suono che passa attraverso overdrive, wahwah e whammy bar è corposo, aggressivo e avvolgente come deve essere quando si parla di blues.
In più, c’è spazio per un richiamo alle origini, con washboard e armonica.
Centamore alla batteria è potente, preciso e martellante.
Sintetizzando in tre parole: il due spaccano di brutto.
E sono contento; da una parte di godermi una performance live come questa, dall’altra di vedere da parte del pubblico un’attenzione e un rispetto che anni fa sarebbe stato impensabile riscontrare.
Ma soprattutto la felicità è quella di dedicare più della solita riga d’ufficio a chi in Italia fa grande musica e la porta in giro con talento, passione, sacrificio e a dispetto delle difficoltà che si incontrano.
Quando la sala si è riempita, arriva il turno della star della serata: Fantastic Negrito, al secolo Xavier Amin Dphrepaulezz, da Oakland.
Dopo essersi trasferito dal Massachussets in California, aver scelto la strada e lo spaccio tra le gang di Los Angeles, organizzato party illegali in loft da 300 metri quadri con Mike Tyson tra i più affezionati frequentatori, infilato un demo nella sacca da golf del manager di Prince e strappato a diciassette anni un contratto da un milione di dollari, aver fallito ed essere sparito dalla scena artistica, subìto un gravissimo incidente, trascorso tre settimane in coma tra la vita e la morte, uscitone con danni permanenti alle mani, trovato un diverso modo per suonare la chitarra, resettato la sua vita e la sua carriera artistica, assunto un nome d’arte, virato verso la musica nera, collaborato con leggende della musica, creato un mercato gratuito per il pubblico, messo in piedi una fattoria dove insegna a fare giardinaggio, vinto tre Grammy in tre diversi anni nella categoria Best Contemporary Blues Album, a tre mesi di distanza del suo ultimo lavoro, “Grandfather Courage”, rivisitazione acustica del precedente “White Jesus, Black Problems”, a un giorno di distanza dall’esibizione di Ferrara in apertura a Bruce Springsteen, lo ritroviamo sulla via Braccianese.
Se prima avevate un dubbio, adesso sapete che la vita può essere bizzarra e imprevedibile.
Ti aspetti che si impadronisca della scena e ciò accade fin dal primo secondo.
Gibson a tracolla, camicia bianca a pois rossi, gilet color crema.
Carisma, movenze, energia di un predicatore officiante un rito antico com’è antica la storia dei neri.
Mattatore, protagonista indiscusso, inafferrabile, mercuriale nelle movenze e nelle espressioni.
Performer e non solo semplice musicista.
Dialoga con il pubblico, passa il microfono agli spettatori nelle prime file, spiazza, sorprende, domina il palco, salta, si dimena.
In qualche caso forse esagerando e perdendo un pizzico di naturalezza.
Sul palco sale in quartetto, batteria, chitarra e all’hammond, tastiere, synth e basso giganteggia il suo fido scudiero Bryan C. Simmons, contraltare musicale e fisico, che raccoglie e rilancia le sue frasi melodiche e la sua energia.
Lo spettacolo è una summa della black music.
Gospel, ma soprattutto soul, rythm and blues, funky e groove reggae sopra i quali talvolta inserisce sonorità dal sapore zappiano, come accade in ‘Working Poor‘.
Paga il suo giusto tributo a George Clinton e ai Parliament, è più James Brown che Jimi Hendrix, più Prince che B.B. King.
Voce acuta e graffiata, che si veste talvolta di timbriche beffarde e mefistofeliche, in altri momenti richiama addirittura frequenze “plantiane” e in altre canzoni si carica di drammaticità e il dolore.
È il caso di del tradizionale folk blues ‘In The Pines‘, altrimenti conosciuta come ‘Where Did You Sleep Last Night‘, impreziosita da una notevolissima coda di piano solo ed hammond, di ‘Virginia Soil‘, in cui racconta la storia di sua nonna e ‘Son of a Broken Man‘, dedicata a suo padre.
È la musica delle sue radici; lo showman diventa introspettivo, la voce acquista toni più profondi e gravi, va a sfumare in un sussurro, quasi a diventare un JJ Cale nero.
E poi a chiudere la prima parte la disperazione di ‘Lost in a Crowd‘ con la sua puzza della follia e della rabbia dei bassifondi.
È la parte del concerto che più emozionante; puzza di sudore nelle narici, sapore di terra in bocca; si chiama blues, i Grammy Awards si possono mettere da parte.
È l’acclamazione e poi il rientro con ‘Plastic Hamburgers‘, chiusura al fulmicotone che rivela anche una anima rock e mi porta sul pianeta Rage Against the Machine.
Non realizzo ancora compiutamente il pensiero, che dalle casse è proprio ‘Killing in The Name‘ il primo pezzo che accompagna l’uscita del pubblico dalla sala.
Quanto basta per bearmi di inesistenti doti di preveggenza, mentre grazie alla gentilezza di tecnici e security accedo nell’area palco e mi accaparro la scaletta del concerto.