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Europe live a Milano: dalla noia al conto alla rovescia

Ben 200 km di strada da percorrere e un solo album da ascoltare, “The Final Countdown”: Joey Tempest si materializza in un karaoke improbabile e sul cofano della macchina i suoi boccoli biondi sventolano.
«Chissà se dopo trent’anni questa voce sarà la stessa di quella che mi ha accompagnato nell’adolescenza, quella voce che mi ha fatto sognare e ballare?».
Non mi resta che scoprirlo, perché il 20 novembre all’Alcatraz di Milano c’è la promessa d’un intero live fatto di quelle canzoni, il “The Final Countdown – 30th Anniversary Tour”.

Nemmeno la pioggia incessante ferma la coda fuori dal locale e insieme ai bagarini, che stavolta cercano biglietti da comperare perché l’evento è sold out, ci sono i venditori di ombrelli.
Una lunghissima fila di ombrelli colorati lungo la strada.
«Gli Europe vengono tutti gli anni qui», dice uno della sicurezza «ma non ho mai visto così tanta gente come stavolta, ragazzi».
In effetti, anche il bar di fronte al locale ha già finito la birra.

All’interno dell’Alcatraz si scoppia di caldo, e tranne qualche ragazzetto, la media del pubblico è sopra i 35 anni.
Ad aprire lo show il giovanissimo gruppo Tax the Heat, con un rock carico e incazzato firmato UK. L’attesa si fa lunga e qualche «ok, grazie, ora basta» emerge dalla folla impaziente che ha già ascoltato abbastanza ed è in attesa del main show.

Arriva finalmente il momento che tutti aspettano.
Per chi è rimasto al 1986 c’è stata una sorpresa, magari una sofferenza: 55 minuti di proposta integrale di un disco che forse non avevano mai ascoltato, “War of Kings”, uscito a marzo del 2015 e che vanta un connubio tra rock e blues.
Un album che ha suscitato controversi commenti e diversità di opinioni da parte dei nostalgici ad ogni costo dei tempi di “The Final Countdown”.
Gli Europe ancora una volta scelgono la propria libertà espressiva, rendendo un loro personalissimo atto di ossequio ai propri maestri pieno di rifiniture blues che pescano un po’ dagli anni ’70.
La voce di Tempest (anche se non indugia più lungo le melliflue note di ‘Carrie‘) resta sempre inconfondibile. Cè chi ha cantato le canzoni, chi si è dondolato lasciandosi trasportare dalla musica anche se non conosceva i testi e chi è scivolato nello sconforto.

È ‘Hole in My Pocket‘, dall’incedere rapido e scattante, il primo brano previsto e ahimè si sente l’ingombrante ombra dei Deep Purple.
Ne sussegue ‘Second Day‘, un brano atmosferico carico di enfasi con una suadente linea vocale un pò in chiave zeppeliniana e una melodia che lascia spazio ad un assolo impecabile di Norum. ‘California 405‘ si distingue, invece, per le tastiere decisamente vintage che paiono originarsi da qualche album di decenni fa.
Il tutto scorre lento tra la noia e le perplessità di chi è venuto a sentire l’album del trentennale.

Le file più indietro dell’Alcatraz sembrano figurine incollate al pavimento, ipnotizzate anche dallo schermo doppio che continua a far girare immagini psichedeliche come fosse un caleidoscopio. Per ultima la title-track, ‘War of Kings‘, che concede oscuri toni alla Black Sabbath dal sapore epico e l’incidere metallico reso inquietante da chitarra e tastiere.

È sulle note della tastiera di Michaeli che il pubblico si risveglia e finalmente puo cantare a squarciagola «we’re living toghether».
Bastano ancora ‘Rock the Night‘ e ‘Carrie‘ e si lasciano tutti andare: si torna indietro nel tempo, esattamente a trent’anni fa, grazie anche alle foto d’epoca che scorrono sui maxischermi.
«È una figata», dice Joey in perfetto italiano, ed appare nuovamente quel ragazzo con i boccoli biondi e petto nudo che finisce il concerto con un saluto particolare, «Barlafùss».
Inconsciamente sta dicendo che siamo tutti deficienti, ma questo lui non può saperlo poché ha semplcemente ripetuto quel che ha detto qualche suo conoscente milanese in dialetto – e che starà ancora ridendo come tutti quelli che lo hanno capito.

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