Oca Nera Rock

Turn ON Music

Egyptian Blue: la potenza generatrice del disagio

LA BAND INGLESE MANTIENE LE PROMESSE E REGALA UNA GRANDE PERFORMANCE AL MONK

Post-punk, e non solo, nella seconda delle tre date italiane

Roma, 3 ottobre 2024 / Ph. ©️ Giulio Paravani

È appena terminato il concerto degli Egyptian Blue, passo davanti al banchetto del merch, dove fanno bella mostra solo le magliette. I vinili sono andati a ruba al termine del concerto di Milano. Ci trovo Andy Buss, frontman, cantante e chitarrista. È sorridente e rilassato e disponibile ai selfie di una giovane fan attraversata da una perturbazione dopaminergica di intensità maggiore di quella passata sopra Roma un paio di ore fa.

Tiro dritto per non rovinare la scena e costringere tutti a un secondo ciak. Anche se l’istinto mi spinge ad avvicinarmi per complimentarmi e stringere la mano guardandolo negli occhi, Visto dall’esterno apparirebbe a molti come un’attribuzione di capacità artistiche e musicali. Vero al 50%: perché riconoscimento è quello di una persona disturbata da parte di un suo simile. E tra disagiati sono i silenzi che contano, non servono parole

È difficile raccontare il disagio. Chi volesse far bella figura citerebbe l’Istituto Enciclopedico Treccani. L’alternativa 2.0, ossia Wikipedia, è a contenuto libero e aperto e non c’è mai troppo da fidarsi degli esseri umani. Molto meglio l’AI, che lo descrive come un conflitto, tra parti di sé o tra sé e il mondo esterno. Che può essere avvertito come leggera inquietudine, o come malessere via via più intenso, che affonda le radici in parti profonde della personalità.

Concordo con l’AI, ma mi piace pensare al disagio utilizzando un paradigma della fisica: uno squilibrio, o una differenza di potenziale tra parti di sé, o tra sé e la realtà esterna, che genera un passaggio di energia tanto maggiore quanto è ampia questa disparità. Energia che può assumere diverse forme nella realtà materiale. Una di queste, non l’unica, è l’espressione artistica.

Scopro l’acqua calda: è un comune denominatore per la stragrande maggioranza delle band, il “conflitto disfunzionale” come forza generatrice e impulso creativo primario. Penso alle dichiarazioni di Noel (o Liam? boh) Gallagher, cresciuto in una zona di merda di una città di merda come Manchester. Disse che se fosse nato in Italia non avrebbe fatto la rockstar, ma trascorso le giornate andando in vespa sotto il sole e cercando ragazze. Certamente non si sarebbe mai chiuso per giorni interi dentro una sala prove. Poi penso ai Joy Division, agli Smiths, agli Stone Roses. Non credo avesse torto

Se questa era la situazione a Manchester, figuriamoci a Colchester, città natale dello stesso Andy e del chitarrista Leith Ambrose. Fondano gli Egyptian Blue e tirano dentro Luke Phelps e Isaac Ide che si piazzano dietro basso e batteria. I quattro si trasferiscono a Brighton e danno forma ai loro malesseri attraverso lunghe jam ad altissimo volume, corroborate da rispettabili quantità di alcol, e da ricorrenti visite della gendarmeria, chiamata dai proprietari della gioielleria sottostante il loro appartamento.

Egyptian Blue

Evidentemente i decibel erano in quantità sufficiente da far arrivare la loro musica a Yannis Philippakis, leader dei Foals che decide di caricarseli in tour. Stessa cosa, tempo dopo, faranno anche i Murder Capital, band alla quale sono spesso accostati. Quando Joe Talbot degli Idles li definisce “fottutamente malati” allora tutto torna. In quattro anni, con una pandemia in mezzo, producono un EP, alcuni singoli e il primo interessante album, “A Living Commodity”, uscito nel 2023. Arrivano in Italia ad agosto 2024, ospiti dell’Ypsigrock e tornano dopo due mesi per tre date sulla direttrice Milano-Bologna-Roma.

E il disagio prende la miglior forma possibile. Gli Egyptian Blue si inseriscono a pieno titolo tra le più interessanti proposte della nuova ondata post-punk d’oltremanica. Ne esplorano diverse possibili direzioni, addentrandosi in territori non ad esso contigui. Recuperano sonorità degli anni Ottanta dandone la loro rilettura. La band si diverte alla grande sul palco, passando agevolmente da atmosfere definite da pennellate di oscuri arpeggi d’atmosfera passati in chorus e delay, interrotte da irruzioni chitarristiche infuocate.

Per i maniaci, i suoni sono quelli del Vox Ac30 e del Fender Twin Reverb. Le canzoni sono ricche di dinamica. Giocano con delay ripetuti e circolari, variandone la frequenza di ripetizione o con arpeggi ostinati senza far uso di loop station. Non disdegnano i tempi ternari, è il caso di ‘Salt’ e cambi di tempo e inserimenti di tempi dispari in 5/4; come accade in ‘Geisha’. Sul palco si muovono con interdipendenza, segno di feeling ed empatia.

Andy Buss sta sul palco senza le rigidità e esagerazioni che talvolta si osservano nelle band agli esordi. Caldo e umidità non risparmiano la sala del Monk, ma il ragazzo resiste il tempo di sette pezzi prima di togliersi le due magliette indossate l’una sopra l’altra.

Il blu egiziano è il più antico pigmento sintetico. Inventato al tempo dei faraoni, utilizzato anche nell’arte greca, romana, medievale e rinascimentale. I brani sono brevi, infilati come perle di una collana di color Egyptian Blue. Non lasciano il tempo di pensare; sono tredici le canzoni, per la maggior parte tratte dai lavori finora dati alle stampe, alle quali si aggiungono alcuni inediti forse di prossima pubblicazione.

Egyptian Blue

Dalle sonorità post-punk di ‘Belgrade Shade’ in apertura, ai momenti con divagazioni quasi sperimentali di metà concerto, alla fine detonante di ‘Matador’, ‘Collateral Damage’ e “Nylon Wire’. Momento di gloria anche per Alex, il loro tour manager, chiamato alla sostituzione di un jack. Il concerto ha la durata giusta, finisce e ne vorresti di più; così si fa. Tempo di saluti finali e mi avvicino al palco; ci sono bottiglie di birra al posto dell’acqua, e scopro che sia Andy che Leith  hanno la pedal board che usavo anche io ai bei tempi. Sono gli stessi anche alcuni effetti. Dicevamo, il disagio.

La variabile che fa la differenza è la disfunzionalità emotiva. La sottile barriera che separa gli Egyptian Blue dagli alGot, esibitisi in apertura. Romani, jazz/prog fusi con il rap, sulla scia di band punto di riferimento del settore come gli Studio Murena con una passata di Virginiana Miller. Tecnicamente validissimi, vittime della loro stessa tecnica. Pezzi sparati a tutta, troppo pieni e pochi vuoti, a discapito delle dinamiche. Scrittura un po’ acerba. Non bene il cantante, sicuramente meglio, molto meglio nelle aperture melodiche e strumentali alla tromba. Ma poca malattia mentale.

Il problema principale della musica italiana che vorrebbe essere alternativa, ma anche di quella che non ha tale pretesa: la mancanza di disagio. L’eccezione dei trapper, che pur facendo cose inascoltabili hanno seguito e successo. Perché è lo squilibrio, il conflitto a renderci umani, credibili e interessanti. È il problema delle scuole di musica in Italia, ti insegnano a suonare, bene, benissimo ma si fermano lì. Certo, non possono insegnare a rovinarsi la vita, ma hanno piena facoltà di chiamare uno psicologo per utilizzare l’MMPI o il test di Rorschach nelle audizioni. Ci pensino.


Guarda le foto della serata

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.