DSL* Dire Straits Legacy, un ensemble di leggende
Difficile trattare l’argomento tribute band: di solito è un campo minato, un’autentica passeggiata sulle uova.
C’è chi le considera il male assoluto, chi le adora e chi le ignora.
Il dato di fatto è che sulle tribute band ci campano molti locali e, diciamolo, anche tanti musicisti (il mio pensiero in proposito è piuttosto democristiano).
Trovo paranoico definirle il male assoluto, così come accusarle di vanificare gli sforzi di tutto quel sottobosco di musicisti che lottano per emergere proponendo solo materiale di propria penna.
Diciamo però che se tribute band deve essere, almeno che sia seria.
Ovvero, che si focalizzi su artisti non più in attività e possibilmente non limitandosi ad una mera riproposizione di greatest-hits ma riproducendo un determinato tour, piuttosto che un ben preciso momento storico.
Curando inoltre non solo l’aspetto strettamente musicale ma anche quello visivo e concettuale, permettendo così ai nostalgici (e a chi non ne ha avuto la possibilità di vederli dal vivo) di colmare (almeno parzialmente) una lacuna che diversamente rimarrebbe tale.
Perché un conto è andare a vedere una banda di week-end warrior dall’ego inversamente proporzionale alla qualità della proposta che ti fracassano le gonadi con l’ennesima ‘Bohemian Rhapsody‘, un altro è vedere la cura certosina con cui certe ensemble te la fanno rivivere in tutto il suo splendore.
Penso per esempio ai canadesi The Musical Box, che i Genesis dell’era Gabriel li materializzano letteralmente sul palco; o alla Dark Star Orchestra che riesce a farti fare un balzo indietro nel tempo, riproponendo alla perfezione gli storici concerti dei Greatful Dead.
Quando poi nella tribute band confluiscono musicisti che con i tributati ci hanno lavorato per davvero, è chiaro che il livello e le aspettative non possono che elevarsi, a tutti i livelli. Ricordo in passato di aver assistito con la mascella cadente all’esibizione dei Security Project, con cui Jerry Marotta e Trey Gunn rendono omaggio alla carriera solista di Peter Gabriel, piuttosto che quella meraviglia messa in piedi da Nick Mason con i suoi Saucerful Of Secrets.
Stavolta al Teatro Nazionale di Milano vanno in scena i Dire Straits Legacy (DLS), formazione che ruota attorno al tastierista Alan Clarke, che negli Straits ci ha suonato per una quindicina d’anni, ma che include anche personaggi come Phil Palmer (chitarra), Mel Collins (sax) e Danny Cummings (percussioni).
Insomma, tutta gente che nella propria carriera si è trovata a lavorare, in un modo o nell’altro, al cospetto di Mark Knopfler.
Giusto per non esagerare troppo, al basso troviamo un’altra leggenda vivente, quel Trevor Horn che è passato dai Buggles agli Yes per poi fondare gli Art Of Noise, e contemporaneamente diventando uno dei più importanti produttori discografici in circolazione.
A completare il quadro dei DSL, un power trio italiano con Primiano DiBiase (De Gregori/Venditti) alle tastiere, Alex Polifrone (Il Mito New Trolls) alla batteria, e colui a cui sul palco tocca l’ingrato compito di impersonare Knopfler, Marco Caviglia, che questo ruolo se l’è conquistato di diritto con 20 anni di militanza nei Solid Rock, tribute band romana proprio dei Dire Straits con alle spalle un migliaio di concerti in tutta Europa venendo universalmente riconosciuto tra i migliori interpreti al mondo dello stile knopfleriano.
Con una line-up del genere, le aspettative per questo show non potevano che essere altissime, ed in effetti i brividi partono fin dalle prime note di ‘Private Investigations’, con cui prende il via quella che sarà una lunga cavalcata attraverso i brani che hanno reso immortale la band di Mark Knoplfer.
Sul palco la band è ben distribuita: Clark, Caviglia e Palmer in prima linea; Horn leggermente arretrato ma ben visibile grazie anche al basso giallo che fa quasi da catarifrangente. Dietro domina la batteria di Polifrone, alla cui destra troviamo la postazione di Cummings e a sinistra le tastiere di DiBiase.
L’acustica, essendo un teatro, è assolutamente perfetta ed anche l’apparato luci e video sono risultati efficaci pur nella loro semplicità.
Trattandosi di una tribute-band, la scaletta è un fattore parecchio importante e per quanto con un repertorio del genere sia difficile sbagliare, qualsiasi scelta rischia di scontentare qualcuno – tipo il sottoscritto, che avrebbe fatto volentieri a meno di ‘Setting Me Up’ in cambio di una ‘Solid Rock’, ed avrebbe accuratamente evitato ‘So far Away’ introducendo una ’Love Over Gold’.
O, ancora meglio, una ‘Once Upon A Time In The West’, la cui esclusione dalla set-list ha per me un po’ del criminale.
Il resto c’è più o meno tutto: da ‘Romeo & Juliet’ a ‘Expresso Love’ passando per ‘Tunnel Of Love’ e per quelli che a mio modestissimo parere sono stati i pezzi meglio riusciti della serata – una ‘Telegraph Road’ da urlo, la classicissima ‘Sultans Of Swings’ e la commovente ‘Brothers In Arms’.
Da segnalare come la presenza di Horn abbia portato in set-list ‘Owner Of a Lonely Heart’ degli Yes, peraltro interpretata magnificamente.
Non fraintendemi, io adoro gli Yes e adoro ‘Owner’, e posso anche capire che avendo Horn in line-up in qualche modo occorre accreditarlo, ma francamente gettata così nel mezzo un pochino ha stonato.
Da segnalare in chiusura di concerto una commovente ‘4U Ricky’, scritta a quattro mani da Caviglia e DiBiase, in memoria di Riccardo Locatelli, il manager della band che purtroppo è venuto a mancare pochi mesi fa.
Che dire dei musicisti sul palco?
Singolarmente sono dei mostri su cui davvero poco c’è da discutere.
Clark e Palmer assolutamente sul pezzo, Horn è inossidabile mentre ho trovato un bel po’ sotto forma Mel Collins, che comunque ha fatto il suo.
Ottimi comprimari i nostri DiBiase e Polifrone, mentre Caviglia – a cui spetta il ruolo più difficile – si è calato nei panni del mitico Mark con la sicurezza ed il piglio di chi da più di vent’anni interpreta questo ruolo, ed era francamente percepibile in lui tutto il suo amore per questo materiale.
Personalmente lo trovo più a fuoco sulla chitarra che sulla voce, ma cercatelo voi là fuori uno che suona e canta come Knopfler.
L’unica pecca che ho trovato è una velata mancanza di quella urgenza tipicamente direstraitsiana in brani come ‘Expresso Love’, ‘Skateaway’ e ‘Tunnel Of Love’.
Qui sta il vero pericolo in cui possono incorrere le tribute band quando affrontano pezzi di valenza universale come questi, che tutti noi (o quasi) consociamo quasi a memoria: li abbiamo talmente dentro che ogni minima variazione ci stona.
Ma, a parte questo, le due ore di concerto sono volate via in un baleno e ci hanno permesso di uscire dal teatro carichi di quei ricordi che questa sera la Dire Straits Legacy ha contribuito a riportare a galla.
Appena raggiunto casa non ho infatti potuto fare a meno di rispolverare e mettere sul piatto la mia vecchia copia di “Alchemy” e riprendere il viaggio laddove si era interrotto.