Disorder Festival | Day 03 |
«Se c’è una cosa che in Italia funziona è il disordine»
Leo Longanesi
Sono le otto di sera e mi hanno da poco offerto le albicocche più buone mai mangiate nella mia vita.
Sulla scala che porta al mainstage sto facendo quattro chiacchiere con Felice “Elettro” Calenda, mente ispiratrice del Disorder Fest.
Mi motiva l’ispirazione che illuminò la scelta del nome del Festival itinerante che da undici anni porta bellezza, arte, cultura in un’area, la provincia di Salerno, non usa ad ospitare eventi di tal tipo e portata.
«Da anni avevamo nella testa quest’aforisma di Longanesi e da sempre avevamo nel cuore un amore sconfinato per i Joy Division. Le parole del giornalista, editore e scrittore e la canzone ‘Disorder‘ ci hanno portato fino a qui».
E il disordine come caos generativo si è rivelato il punto di forza della proposta.
Un festival libero, anarchico, creativo con una sola regola di fondo che mi illustra Peppe Biondi, altra colonna portante dell’organizzazione.
«Far star bene le persone che ci vengono a trovare, che lavorano con noi, che ci ospitano. Che siano artisti, pubblico o abitanti del luogo che ci mette a disposizione spazi e strutture».
Non è una dichiarazione d’intenti destinata a restare nell’empireo.
Appena messo piede nell’area del festival, nemmeno il tempo di presentarmi che mi trovo davanti un enorme vassoio di frutta dal quale attingo a piene mani, come da apertura del pezzo, e vengo invitato a rilassarmi nel backstage.
Sono arrivato al Disorder in una calda giornata di luglio, dopo aver letto la dichiarazione pubblica di intenti degli organizzatori, a motivare la scelta di “controcorrente” parola chiave dell’edizione 2023.
«Siamo controcorrente, siamo anarchici, siamo contro le disuguaglianze, per la libertà di espressione e quella di genere, per la rivoluzione sociale, siamo disordine. Leggiamo Emma Goldman e le lettere dal carcere di Alfredo Cospito. Ascoltiamo i Crass di Penis Envy e “Future Nostalgia” di Dua Lipa. Ammiriamo le opere di Svetlana Boym e i sogni di Fitzgerald. Siamo la generazione che siamo, in questo vuoto presente, e vogliamo ritornare ad abitare il nostro futuro».
L’idea si è tradotta anche nella scelta della location.
«Lo scorso anno eravamo a Paestum, a due passi dal mare e dalla foce del Sele. Quest’anno abbiamo risalito la corrente del fiume e siamo arrivati a Oliveto Citra: ci è sembrato subito il posto ideale dove far germinare i nostri semi. Un territorio fino ad oggi tagliato fuori da iniziative simili che rappresentava una sfida: portare alle persone che vivono qui la novità di un festival come il Disorder e le persone che qui si radunano per vivere un’esperienza che per certi versi ha anche dello sciamanico».
Dopo qualche iniziale perplessità, gli amministratori e la comunità tutta hanno creato le migliori condizioni perché il “Disordine” diventasse il filo conduttore della vita del paese.
La sinergia creatasi si è tradotta in due palchi: un mainstage con concerti che spaziano tra gli innumerevoli generi del rock e un secondo palco con l’elettronica protagonista; un camping adiacente a quest’ultimo (subito sold out) realizzato dagli organizzatori; spazi a disposizione di associazioni e attività commerciali locali; ristorazione con prodotti del posto direttamente curata dalla Pro Loco e da esercizi di Oliveto Citra, organizzata alla perfezione, con bassi tempi di attesa e code inesistenti nonostante il massiccio afflusso di persone.
Il lavoro per organizzare un Festival come questo parte da lontano.
Un mese di riposo e poi a settembre si ripartirà pensando già all’edizione 2024.
Un lavoro che impegna a tutto tondo e non riguarda soltanto aspetti artistici.
Ad esempio, la questione della logistica, che però da fattore di criticità può diventare anche punto di forza e attrattiva.
«Questa dell’entroterra tra Salerno e Avellino è una zona difficile, soprattutto da raggiungere. Siamo lontani dai grandi centri e abbiamo un offerta musicale che vive di un hype ben diversa da quella di festival più grandi e con contenuti più votati al pop. Ma questo diventa un punto di forza perché siamo sia noi che cerchiamo le band e gli artisti, che loro a scegliere noi. E poi forse anche alle band abituate a palchi più grandi fa bene uscire dalla comfort zone delle grandi città, dove, bene o male, lo zoccolo duro di fan lo trovano sempre. Qui invece i fan devono venire apposta. Alla fine, vedere cosa succede è una sfida sia per noi che per gli artisti. Se la accettano vuol dire che sono fatti apposta per il Disorder».
E a proposito delle band, il cartellone dell’edizione 2023 ne prevede ventiquattro, distribuite sui quattro giorni della manifestazione, per sei concerti al giorno.
Quattro dalle 21 fin quasi all’una di notte sul mainstage, due di elettronica fino a notte inoltrata.
Gli headliner sono realtà consolidate del rock indipendente italiano e mondiale: Marlene Kuntz, Casino Royale, 24 Grana e Thurston Moore Group.
Accanto a loro trovano spazio realtà fuori dal mainstream e dai grandi circuiti pop.
Denominatore comune è la qualità e il livello delle performance; obiettivo finale è un’ulteriore sfida:
«Venire incontro a tutti i gusti del pubblico. Sappiamo che accontentare tutti sia impossibile, ma cerchiamo di avvicinarci il più possibile a quest’utopia».
Gli artisti che sono sempre contenti di venire a suonare al Disorder:
«Probabilmente dopo undici anni la nostra eredità ci precede. Le band sanno che troveranno un contesto di alta professionalità, con un gruppo attento a tutti i particolari, in particolar modo a quelli legati all’accoglienza e a quelli tecnici».
E in effetti palco, strumentazione e allestimenti tecnicin(come luci e amplificazione) non hanno nulla da invidiare a quelli di festival ben più grandi.
Alla squadra di dodici tecnici, fonici, responsabili luci, tecnici di palco si aggiunge chi è deputato a presidiare aspetti organizzativi a trecentosessanta gradi; merchandising, commerciale e rapporti con gli sponsor, grafica, comunicazione, veejays e, se necessario, anche interpreti.
«Il Disorder è una creazione di tutti noi. Mi mancherà il rapporto con loro», mi dice Peppe la mattina del giorno conclusivo.
Cura dei dettagli e attenzione alla bellezza anche nei prodotti del merchandising.
Bellissime le magliette, le shopping bag e gli altri gadget.
I prezzi sono irrisori, con l’eccezione del manifesto ufficiale del festival: quello è gratuito.
Gratuito come lo spettacolo rosa della luce del tramonto che si riflette sulle rocce dei monti Picentini, mentre la birra sponsor della manifestazione, dolcemente agrumata, dissetante e berlinese (le cose non sono per caso) mi ristora anima e corpo, adagiato su una sdraio nel backstage.
Rosa che richiama il colore ufficiale del Disorder 2023 che trovo ovunque mi giri.
Il tempo di ricevere l’invito di Felice a «sostenere i festival indipendenti come il nostro, perché le piantine che germogliano oggi qui saranno i grandi e forti alberi di domani», che arriva il momento della musica.
Anna Ox
Anna Ox non è un refuso, ma un calembour nato giocando intorno alla parola “ox”, che in inglese significa bue.
Un cazzeggio da sala prove che ha dato il nome a un progetto attivo da cinque anni che coinvolge quattro ragazzi di Vigevano, giunti al Disorder dopo diverse code e cantieri stradali per complessive dodici ore di viaggio.
Hanno pubblicato da poco il loro secondo lavoro, “Lana”, uscito per l’etichetta indipendente umbra To Lose La Track.
Si inseriscono all’interno della corrente che in Italia sta riscoprendo la musica strumentale, con sonorità all’interno delle quali si ritrovano elementi jazz, ambient, elettronici, noise.
Quelli bravi direbbero post-rock o math-rock.
Non mi curo troppo dell’etichetta del genere, ciò che conta è la pienezza e l’ecletticità del suono, con brani ideale colonna sonora del tramonto sopra raccontato.
Yes Daddy Yes
L’efficienza del servizio di ristorazione è tale da permettermi di godermi la cena durante il cambio palco in tempo per assistere alla performance degli Yes Daddy Yes.
Band di casa, originaria di Agropoli, attiva ormai dal 2009, freschissima di nuovo singolo, “Palme Tropicali Terra Aria”, uscito il 13 luglio sulle principali piattaforme.
I musicisti, attivi da diversi anni sulla scena indie, non si risparmiano e si concedono anima e corpo al pubblico.
Il loro set è una sferzata di punk con un’anima pop nemmeno troppo nascosta.
Vocalità grintosa e aggressiva, che trascina il pubblico, e che si appoggia su tappeti di suono che le conferiscono spazio e tridimensionalità.
A pieno agio sul palco, è una band le cui caratteristiche trovano nella dimensione live la naturale esaltazione.
Jamie Stewart
Terzo in cartellone è Jamie Stewart, leader degli Xiu Xiu, band losangelina di rock sperimentale.
Oscurità, abisso, canzoni che scendono nelle profondità più torbide dell’animo umano.
La voce che si ripiega su sé stessa, per poi espandersi con repentini cambi d’intensità.
Sfrutta a tutto tondo tutte le potenzialità espressive, dinamiche e timbriche della sua Gibson semiacustica, passando da suoni morbidi e puliti, a feedback distruttivi e indemoniati.
Osa, provoca, scuote e accarezza, regala emozioni e shock. Un set molto interessante, ascoltato con attenzione e apprezzato nonostante la non facilissima fruibilità.
Thurston Moore Group
Thurston Moore ha la splendida abitudine di sistemarsi da solo set up e cablaggi della sua chitarra.
Riparte dall’Italia, dove aveva concluso il tour europeo primaverile.
La band è la stessa di tre mesi fa e viene presentata al pubblico non appena sale sul palco, subito dopo aver scherzato a proposito dell’immagine diabolica sulla lattina di birra sponsor della manifestazione.
E nulla traduce in note i concetti di disordine entropico come la sua musica: i suoi brani sono un flusso costante improvvisativo, nel quale ci si immerge con naturalezza, fiducia e abbandono.
Mi godo parte del suo set dal backstage e mi è ancora più evidente come la band abbia un controllo totale e assoluto sul suono e di quanto ogni componente sia focalizzato sui compagni.
Moore è attento a catturare ogni minima diversa sfumatura dei suoni della sua Jazzmaster.
Le sue note formano vortici, giravolte, cabrate e picchiate, e il loro naturale sbocco alla fine è comunque la forma canzone.
Arriva sempre in fondo, dopo averti accompagnato in labirinti sonori dentro i quali ti prende per mano e ti guida verso l’uscita.
Lo fa attraverso percorsi a spirale, in crescendo apparentemente infinito e poi improvvisamente in vertiginose picchiate, lungo un’onda sinusoidale in un orgia dionisiaca rumoristica.
La musica diventa un mantra che scandisce i tempi di riti ancestrali di scoperta dei quattro elementi, che trovano sintesi in una fusione alchemica che ne trascende materia ed essenza.
I brani muoiono e rinascono dalle loro ceneri.
Pensi che non ci sarà più ordine, e invece tutto può rientrare nei parametri rassicuranti della forma canzone all’interno di un sistema tonale di riferimento.
È trascorsa un’ora e un quarto dall’inizio della sua performance e chiede il tempo per un ultimo pezzo: arrivano venti minuti di baccanale sonoro prima di salutare il pubblico che lo acclama.
Stavolta è finita davvero, nel backstage si rinfresca e si asciuga, di là il pubblico continua ad acclamarlo.
Uno sguardo con la band, risalgono e avanti fino all’una di notte tra i fan entusiasti.
Come la ragazza e il ragazzo che incontro il mattino dopo nel bed and breakfast in cui ho passato la notte: li riconosco dalle maglie indossate, sono di Putignano, hanno una web radio e torneranno sicuramente il prossimo anno.
Proprio come me.
Al Disorder si sta bene.
Chiamalo scemo, Longanesi.