dEUS, (fortunatamente) c’è ancora molto da dire
Anversa è la capitale mondiale del taglio dei diamanti e capoluogo delle Fiandre, regione del nord del Belgio a maggioranza linguistica fiamminga. Istanze autonomiste nell’ultimo periodo hanno ritrovato antichi vigori sulla spinta di forze di estrema destra.
Tuttavia, in tre città delle Fiandre – Gand e Bruges, oltre alla succitata Anversa – esistono sacche di resistenza linguistica, costituite dalle famiglie aristocratiche che fanno un punto d’orgoglio francofono il parlare un francese senza alcuna inflessione o cadenza dialettale.
Tom Barman, mente e anima dei dEUS viene da una di queste famiglie e parla un francese privo di accento, pressoché perfetto.
È terminato da pochi minuti il concerto dei dEUS e Marco, giornalista belga di origine italiana, in vacanza in Salento, salito apposta a Roma per far conoscere a una coppia di amici la sua band preferita, mi mette a parte dello stato attuale della situazione sociopolitica del Belgio.
Improvvisamente conoscere tutto dello stato incastonato tra Francia, Paesi Bassi e Germania sembra essere diventato l’unico scopo della mia vita.
Un concerto esaltante può avere questi effetti collaterali.
I dEUS, dicevamo, tornano a Roma dopo il concerto del 2019 a Villa Ada e bastano pochi secondi, l’incalzante intro sui timpani – suonati dal bassista Alan Gevaert – di ‘How to Replace It‘, title track dell’ultimo lavoro, e la chitarra frippiana – anzi “summersiana”, trattandosi di Telecaster – di Mauro Pawlowski per alzare l’intensità dell’energia.
Che i dEUS fanno sul serio diventa definitivamente chiaro alla fine del pezzo, nel momento più esaltante dell’intera stagione 2023 dei live estivi.
Ne faccio da sempre una battaglia personale, i posti a sedere in platea in un concerto rock vanno predisposti soltanto se: suonano i Sigur Ros; sei allo stadio Pino Zaccheria di Foggia e hai tra gli spettatori Alain Elkann con i suoi amici, tutti con un abito stazzonato di lino blu; vuoi uccidere il concerto e incentivare il consumo di antidepressivi tra i musicisti.
Tom Barman mi legge nel pensiero e come David Byrne a Perugia nel 2018 non fa prigionieri: «È un concerto rock; quindi, alzatevi e venite qua sotto». Il sottopalco si affolla di centinaia di persone che non aspettavano altro e da quel momento nessuno ferma più nessuno, nemmeno alcuni problemi tecnici agevolmente superati.
Sono passati undici anni dalla loro precedente uscita discografica.
Barman ha avuto tutto il tempo di dedicarsi alla fotografia, alla regia, alla scrittura di sceneggiature.
Ma che la band abbia ancora molto da dire, e da dare, lo conferma l’esibizione di stasera.
«Non vuoi ripeterti, ma d’altra parte hai comunque un tuo stile» è il biglietto da visita del nuovo disco.
Potrebbe sembrare una dichiarazione destinata a restare scritta sulla lavagna dei buoni propositi, ma così non è, almeno per quello che si ha modo di vedere stasera.
Sette i brani estratti dall’ultimo lavoro uscito il 17 febbraio 2023.
Abbiamo il prog oscuro e di matrice cantautorale, con la vocalità di Barman che si colloca in un punto di un piano geometrico tra Leonard Cohen, Peter Murphy e i Bad Seeds.
È il caso di ‘Man Of The House‘ e di ‘Pirates‘, il cui violino elettrico e i synth di Klaas Janzoons, conferiscono all’esecuzione di ‘Pirates‘ un potere e una sacralità rafforzata dalle luci rosse e viola del palco.
Solennità ribaltata dalle atmosfere più leggere e pop anni Ottanta di ‘Faux Bamboo‘, ‘1989‘ – un po’ Barry White, un po’ Double (quelli di ‘The Captain of the Heart‘) – e di ‘Love Breaks Down‘, l’archetipo della perfetta canzone melodica.
In mezzo, una vera e propria altalena: dal funky impossibile da non ballare di ‘The Architect‘, alla bottega di giocattoli beffardi di ‘Worst Case Scenario‘, rumoristico e sperimentale con il viaggio allucinato del violino di Janzoons e outro stile Sonic Youth che puoi solo amare.
In ‘Quatre Mains‘ Barman dà dimostrazione del suo francese da Académie.
La sua voce è avvolta da spirali di suono ombroso e atmosfere synth pop, sulle quali affondano come lame le distorsioni della Telecaster (da sempre i miei suoni di chitarra preferiti) di Mauro Pawlowski.
È passata un’ora abbondante dall’inizio del live e scopro che il francese può diventare anche una lingua molto cattiva.
‘Instant Street‘ si presenta con abito pop e commerciale, poi ascolti il solo fuori tonalità – e ripetuto – di Pawlowski e capisci che qualcosa sta succedendo.
Il finale è un crescendo di potenza e velocità, un’onda che monta sempre più e si frange su ‘Fell of the Floor, Man‘.
Cosa è il genio se non la capacità di sorprendere continuamente e riuscire a inserire mondi diversi all’interno di quattro minuti?
Armonie funk e black, su groove e riff stile Seattle anni ‘90 e improvvisi break di strumming puro su Stratocaster che si spegne su un letto di tastiere. Pensi sia finita qui, quando improvvisamente ritrovi i suoni rock di inizio brano per la definitiva mazzata finale.
Chapeau Monsieur Barman.
Motori sempre al massimo dei giri con ‘Sun Ra‘, incalzante crescendo di muri di chitarre, violente, martellanti, ossessive, ipnotiche.
Stephane Miseghers si trasfigura alla batteria, per una canzone che farebbe invidia ai Placebo più torbidi e sperimentali.
Sono i dEUS che preferisco: carnali, violenti, senza filtri, diretti al plesso solare.
Quelli del violino elettrico impazzito, delle batterie pesanti e ossessive, delle chitarre che non si trattengono più, della voce di Barman che viene direttamente da abissi oscuri.
Quelli di ‘Bad Timing‘ e ‘Suds and Soda‘, che chiudono il set.
Quelli che mi fanno dire che, se i Velvet Underground non fossero esistiti e si fossero formati negli anni Novanta, suonerebbero proprio come i dEUS.
C’è tempo per l’ultimo bis.
Un solerte, ma simpatico, responsabile dell’Auditorium si sincera che si chiuda tutto entro mezzanotte, il tecnico del suono lo rassicura.
Poi riceve la mia richiesta del foglio con la scaletta del live: mi accontenta quasi subito, prima mi offre un saggio magistrale di umorismo belga.
Il bis è un esempio perfetto di canzone autorale: morbidezza da chansonnier, sguardo “piacionico” (chi riconoscerà la citazione saprà capirla e perdonarmela, per gli altri esistono i motori di ricerca) eleganza, chitarre arpeggiate.
Una scia di suono morbido sostenuto dal velluto dello xilofono che definisce uno spazio che si apre sempre più al silenzio, rotto dall’ovazione finale dei duemila presenti nella Cavea.
Assecondare il tempo e lasciare che il desiderio di creare e raccontarsi si sviluppasse naturalmente: i dEUS non hanno avuto fretta.
Il loro rientro sulle scene non ha nulla delle operazioni nostalgiche di scongelamento di DNA che riportano in vita esemplari estinti del pleistocene. Sono una band formidabile con ancora voglia di musica, di suonare, di congiungersi con il loro pubblico, di emozionare ed emozionarsi, come accaduto a Roma.
Come recita l’ultimo pezzo eseguito, ‘Nothing Really Ends‘, almeno per loro.
Ma anche per noi.
Il contemporaneo concerto all’Olimpico di un gruppo che piace tanto ai giovani oggi – no, non è quello che state immaginando – rende interminabile il viaggio di ritorno a casa.
Ma ho da riflettere sulla preoccupazione delle mamme di Molenbeek e il tempo mi passa.
Potenza del rock and roll.