Deerhunter live a Milano: l’esplosione analogica del suono
Potremmo definire quella del 12 novembre al Circolo Magnolia di Segrate (MI) la “serata Bradford Cox“. Main act in cartellone i Deerhunter, alle prese con il tour per il loro ultimo album “Fading frontier” uscito a metà ottobre, mentre in apertura la scena è tutta di Atlas Sound, da alcuni anni progetto solista dello stesso Bradford Cox con cui riempie i tempi morti tra una fatica e l’altra coi Deerhunter. E no, nessun rischio di doppione, nessuno riuscirebbe a smascherarne il presenzialismo sul palco se non fosse per il cappellino e pure il resto dell’abbigliamento.
Si inizia dunque con Atlas Sound, che significa Bradford Cox e il suo one-man show. Un brano alla chitarra con effetti a profusione, un altro al synth, poi mescolando i due strumenti e gli effetti, ruotando vorticosamente al centro del palco. La voce è la sua, mascherata a dovere dall’uso e abuso di modificatori come il copione prevede. Atmosfera surreale e impalbabile, scena fumosa che attutisce le luci e forse i suoni, la sperimentazione sopra ogni altra cosa con pezzi lunghi e ben costruiti, per un’apertura molto curata ed elaborata anche se molto più incoerente con quanto arriverà in seguito, rispetto al classico gruppo spalla. Ma è un concerto nel concerto, Atlas Sound non è concepito come traino all’esibizione principale, e la performance in sé è inappuntabile.
Fine del momento digitale, si inizia a fare sul serio con l’analogico. È l’ora dei Deerhunter, e non si dica che Bradford Cox è egocentrico, il brano di apertura ‘Desire lines‘ presenta la voce di Lockett Pundt, si direbbe un po’ timida e insicura, il suono è invece travolgente da subito, poco indie e molto elaborato con un lungo finale a portare al secondo pezzo, per il debutto del frontman al microfono. E la differenza si sente impietosamente, ‘Breaker‘ è un pezzo morbido dai forti richiami anni 80 e synthpop ma la voce impatta senza fronzoli.
La scaletta dei Deerhunter pesca abbondantemente dai pezzi nuovi, alternandoli a salti indietro nel passato che bypassano completamente il penultimo disco “Monomania” e le sue atmosfere più garage. Le distorsioni non mancano di certo, come succede per il finale della ballata indie ‘Don’t cry‘, mentre ‘Living my life‘, altro brano nuovo, viene rielaborato in chiave good times, come definito dallo stesso Cox, privandolo dei cori e dandogli un’aria festaiola. La doppietta di chiusura ci offre i Deerhunter ancora più travolgenti, ‘Take care‘ è un pezzo lento e sussurrato con le strofe inframmezzate da un’esplosione di suoni e un finale caotico, ‘Nothing ever happened‘ parte come se fosse una canzone indie di quindici anni fa, la voce si fa estremamente aspra, passa attraverso lunghissimi assoli e termina in un delirio di chitarre in libera uscita, dieci o forse quindici minuti di evoluzioni intorno allo stesso giro di basso e batteria, dall’inizio alla fine.
Gli echi di questa chiusura ci portano all’encore dei Deerhunter. ‘Agoraphobia‘ è un’altra ballata dal sound estremamente pulito e la voce ruvida e ‘Ad Astra‘ ridà voce a Lockett Pundt con molto più successo di prima, andando nuovamente a ripescare con furbizia nel pop raffinato e nel groove che ammicca. Per il gran finale, Bradford Cox si destreggia tra tastiera e chitarra, ‘Fluorescent grey‘ sale lentamente per sfociare in un suono quasi ovattato, il ritmo è dritto e incisivo ma il muro di suoni si alza inesorabile e poi sfuma nella distorsione. I sussurri di poco prima sono ormai un lontano ricordo, i Deerhunter ci salutano con il frastuono.