David Gilmour: è solo questione d’amore
L’EX CHITARRISTA E CANTANTE DEI PINK FLOYD FERMA IL TEMPO ED È SEMPRE PROTAGONISTA ASSOLUTO AL CIRCO MASSIMO
Nonostante qualche problema con la voce, David Gilmour incanta durante la prima delle delle sei date romane del “Luck And Strange Tour 2024”.
Roma, 27 Settembre 2024
Vojko è un musicista di conservatorio e viene da Maribor, in Slovenia. Bram è un videomaker e cameraman belga. Jon è un chimico, Lan un manager di una società di investimenti. Vengono dagli Stati Uniti e anziché spendere 3000 euro, escluse le commissioni, hanno scelto di tirarne fuori 230 e abbinarci una vacanza a Roma. Anne atterrerà a Fiumicino giovedì prossimo con un volo dalla Finlalndia. Espen, che vive un paese non lontano da Oslo, invece è già nell’Urbe e si è goduto il soundcheck di ieri da un bar di Via dei Cerchi. Catherine e Dominique invece sono francesi. La prima sarà anche lei al Circo Massimo domenica, la seconda invece non ha trovato i biglietti e si augura che pioverà sempre per tutta la durata degli show.
Poi ci sono io che mi sento come quel giorno in cui, passando dalle parti dello Stadio Olimpico, argomentavo con una mia amica la mia emancipazione dall’incubo delle passioni calcistiche. Motivavo la tesi attribuendola a una raggiunta maturità, foriera di orizzonti e prospettive ben più ampie. Ma, ahi destino beffardo, mi ritrovavo pochi minuti dopo Paulo Roberto Falcao attraversarmi la strada al semaforo di Piazza Monte Grappa, dove le mie urla indiavolate rimbalzano ancora tra gli eleganti palazzi borghesi di inizio Novecento.
Da due giorni ripeto a me stesso le parole che quel giorno dissi alla sventurata che occupava il posto del passeggero della mia Ford Fiesta: “adesso come ne esco?”
Già, perché il concerto al Circo Massimo di David Gilmour è il suggello della subordinazione della musica all’evento; unico, irrinunciabile, irripetibile. È la morte della musica come patrimonio collettivo, i live diventati ormai “specialty goods” come avrebbe detto il mio relatore all’università. Il concerto appannaggio di pochi. Lo show che si fa Dio michelangiolesco a separare gli accolti alla destra del Cristo, dai dannati, condannati al fuoco della Geenna. Anzi, al peggior contrappasso possibile: l’ammirare nei filmati dei primi, ciò dal quale sono e saranno esclusi per sempre. Insomma, siamo lontani dalla mia idea di musica. Segno dei tempi, diceva qualcuno. A me sta sul cazzo e rivendico la mia appartenenza indossando la maglietta di un festival. Molti, troppi vestono quelle dei Pink Floyd, ignorando una delle regole non scritte dei concerti.
San Pietro in Montorio, il punto dove fu crocifisso il primo Papa della storia ci guarda dall’alto. Stasera il Cristo fattosi uomo non porta Croce, ma imbraccia una Stratocaster. Il suo Discorso della Montagna è fatto di scale pentatoniche. Di assoli che riconosci prima ancora che il suono abbia preso forma tra le sue dita e canti nota per nota. Di linee melodiche che ti hanno reso beato, e ti rendono ancora tale. Perché quello che ti promette già lo sai. Non la vita eterna, ma un viaggio con la macchina del tempo, che poi è la stessa cosa.
Quando quel giorno del dicembre 1985, mentre aspettavi che si aprissero i cancelli del Palaeur, per quello che sarebbe stato il tuo primo concerto a pagamento, il tuo amico al quale avevi chiesto cosa stesse ascoltando con il suo walkman rispose passandoti le cuffiette: nel preciso momento dell’attacco del solo di ‘Time’. Fu l’Epifania. Senza quel suono non ci sarebbero dischi dei Dead Kennedys, di Pj Harvey, di Nick Cave, dei Dinosaur jr e di altre centinaia di band e artisti.
Allora c’è un solo modo per superare l’impasse. Uscire dal dominio della ragione per entrare in quello dell’amore irrazionale. Ma so già che scienza e amore non risolveranno la questione. Dentro di me il fan che non vorrà sentir storie e godrà nel sentirsi immerso in qualcosa di esclusivo hic et nunc, dall’altra il razionale che sa perfettamente che lo spettacolo al quale assisterà è abbastanza lontano dall’idea di musica, o di rock, che si è costruito negli anni.
E sa anche che l’evento di stasera non è per noi, per i 15.000 che riempiranno i posti a sedere incorniciati tra l’Aventino a sinistra e il Palatino a destra, ma per i due miliardi di persone che lo vedranno a casa nelle dirette sui social. Due settimane fa ero davanti a Steve Turner dei Mudhoney a dissertare su quanto non ci interessasse il mainstream. Stasera sto qui, la serata proverò a godermela tutta, fino in fondo. In contraddizione? Certo che sì, e me ne vanto
Potrei scrivere qualsiasi cosa stasera. Perché i Pink Floyd sono contenuti dell’inconscio collettivo. Gli spettatori saranno convinti di vedere il concerto stasera, quando invece viaggeranno nel loro inconscio, nell’intersezione tra individuale e archetipico. I Pink Floyd sono stati i primi ad averne consapevolezza. “The Dark Side Of The Moon” ne è riprova. Un concept album sulle paure e le ossessioni dell’essere umano, che diventa uno dei dischi più venduti di sempre. Il suono di un battito cardiaco a fare da filo conduttore. Il suo successo commerciale è lì, è sempre stato lì
Conferma sono anche le reazioni pavloviane ai trigger sonori diffusi dalle casse dell’impianto di amplificazione nelle due ore precedenti il concerto. Che siano le note di piano dell’intro di ‘Echoes’, le frasi, buttate qua e là di quelle che punteggiano l’intero album con il prisma in copertina. Poi, con puntualità londinese, senza clamore e senza quarto d’ora accademico, alle 21 in punto si presenta accompagnato da una band di dieci elementi.
Sul palco l’inossidabile e saltellante Guy Pratt al basso, Ad
am Betts alla batteria, Greg Phillinganes e Rob Gentry alle tastiere, Ben Worsley alla chitarra, Hattie e Charley Webb ai cori, Louise Marshall ai cori e al pianoforte. E poi la più attesa: Romany Gilmour a voce, cori e arpa. La scaletta della serata prevede ventidue brani; dodici estratti dal repertorio dei Pink Floyd, sette dall’ultimo “Luck And Strange”, uscito il 6 settembre (non un giorno qualsiasi per chi sa), tre dal precedente “Rattle That Lock”.
La prima nota di chitarra è un pugno allo stomaco. Puoi averlo visto dal vivo in mezzo mondo, ma non ti abituerai mai. I primi due pezzi sono di introduzione e d’atmosfera: ‘5 a.m.’ e ‘Black Cat’. Poi arriva il brano che dà il titolo all’ultimo lavoro; un blues, per la cui esecuzione tradisce la sua Strato con un gioiello di Les Paul. Con ‘Speak To Me’ torniamo a parlare di Pavlov. ‘Breathe’ invece sono lacrime, le mie, per tutto il tempo della canzone. Me le aspettavo più avanti, ma sono felice di essere rimasto spiazzato.
Poi accade il temuto. L’attacco vocale di ‘Time’ è una sofferenza. Per lui e per noi. Il registro medio/alto della voce non consente il falsetto, la potenza di emissione di decenni fa è un ricordo “Time has gone, the song is over”. Dave sembra accusare il colpo. Anche il solo di chitarra non è come me lo aspettavo: un po’ incerto e senza la solita presenza. Per un attimo temo possa mollar tutto e salutarci qua. Ma se la cava con molto mestiere e in tempo di autotune, backing vocals o playback c’è solo da alzarsi in piedi e togliersi il cappello.
‘Fat Old Sun’ è un pezzo del mio cuore di quindicenne. Accompagnata da un enorme sole arancione che campeggia sul celebre schermo gigante circolare. Non avrà la voce, ma la classe, la poesia, l’intensità emotiva non perdono colpi e la Telecaster gli esplode in mano. Con ‘Wish You Were Here’ anche le rovine della Domus Augustana uniscono la loro voce a quella dei quindicimila di stasera.
Il concerto adesso sembra più oliato. I pezzi del nuovo disco funzionano anche dal vivo. David Gilmour sembra pienamente focalizzato su questa nuova fase della sua carriera. Parte del merito va forse ascritta alla figlia Romany. La sua voce è perfetta per l’interpretazione di ‘Between Two Points’, cover dei The Mongolfier Brothers, band indie pop inglese. Il colpo che non ti aspetti è il moscone di “Ummagumma” che introduce ‘High Hopes”, sul cui solo finale alla pedal steel, volteggiano sulle prime file dodici enormi palloni bianchi con il logo dei Pink Floyd sopra stampato.
Pausa di venti minuti e si riparte. ’Sorrow’ si apre con il classico suono del Big Muff con i livelli di saturazione al massimo immerso in un bagno di delay. Arrivano i laser. Le canzoni degli ultimi due dischi si alternano con brani del periodo Pink Floyd. In questa seconda parte band e coriste sostengono meglio i suoi sforzi vocali. ‘A Great Day for Freedom’ è particolarmente ispirata, mentre in ‘The Piper’s Call’ è Romany a doppiarne la voce.
‘The Great Gig in the Sky’ è cantata a tre voci, che si muovono su una base di piano, contrabbasso elettrico e pedal steel guitar. All’inizio non mi convince; la “botta” di Clare Torry è solo un lontano ricordo. Poi, nella seconda parte, le armonizzazioni azzeccate e un inserto solistico sobrio ma efficace della steel stessa le danno nuova linfa. Poi spazio il ricordo di Rick Wright, la cui voce apre ‘A Boat Lies Waiting’
Altre sonorità vagamente blues in ‘Dark And Velvet Nights’ e poi a chiudere con ‘Scattered’, in cui tornano i suoni e lo spirito dello storico tastierista dei Pink Floyd. Il suono del piano di Echoes punteggia l’andamento della canzone vestita di arrangiamenti orchestrali.
Poi “Confortably Numb”: chi siede in platea corre sotto al palco, in tribuna ci si accalca sulla transenna davanti alla prime file. Il solo lo puoi cantare a memoria. Nove minuti di Stratocaster e laser. Sai già come va a finire il film, ma lo guardi fino alla fine. Con i grandi classici fai così, e basta
Con questa sono nove volte, Dave. Ti ho visto in quattro città diverse, da solo e con la tua vecchia band. Due volte a Venezia; anche quella volta, quando in 200.000 tornammo a casa miracolosamente incolumi. Non credo ce ne sarà un’altra. Non ho molto da dire, non mi aspettavo nemmeno di essere qui stasera. Nei mesi scorsi non hai mancato di sottolineare come alcuni brani storici dei Pink Floyd non ti appartengano più. Ma credo ti sia stufato di suonare anche gli altri. per la prima volta i pezzi più carichi di energia e con la migliore resa live sono quelli estratti dai tuoi lavori da solista; ok, ci metto dentro anche le canzoni di “The Division Bell”.
Fa un po’ male Dave. Il dolore di accorgerci delle opacità della voce, o di qualche incertezza nei tuoi celebri assoli, è il nostro. Ed è percepibile solo da chi intorno a quelle note ci ha costruito la propria storia personale e con un processo di ingegneria genetica li ha inseriti nel proprio DNA, modificandolo per sempre. Fa male perché quelle incertezze sono diventate le nostre. Quella nota non più centrata è quella ruga in più che ci scopriamo ogni mattina davanti allo specchio. E se, nonostante tutto, tu Dave il tempo, come hai fatto stasera, puoi fermarlo. Noi no.
Ma, visto che non avrò modo di rivederti, una cosa da dire la ho. Grazie, Dave. Grazie per la mia stessa vita. Che tu e quell’altro signore mi avete salvato. Quel signore che non vuoi mai sia nominato e che io prendendo in prestito le parole di Michele Mari in “Rosso Floyd” chiamerò “Uomo Cavallo”. È l’unico vincolo che poni ai giornalisti che vengono da te all’Astoria, il tuo studio galleggiante sul Tamigi. Perché sai benissimo, così come lo sa anche lui, che dove è uno, sarà sempre anche l’altro.
È stato qui anche stasera. Come tutti noi che continueremo ad amarti. E vi siete abbracciati, come sempre. Perché, alla fine, anche odiarsi è solo una questione d’amore.