David Duchovny, pop intergenerazionale
Barley Arts riesce a far passare per Milano un nome tanto ingombrante (quanto interessante) come David Duchovny.
Il pienone è evidente ancor prima di entrare, quando i Magazzini Generali aprono finalmente le porte alla lunga coda di persone in attesa.
In pochi minuti il locale è pieno e la fauna è completamente multi generazionale, più di quanto ci si possa aspettare.
Alle diciannove precise inizia l’opener Keenan O’Meara, che propone un solo show voce e chitarra acustica in pieno stile nuovo folk, leggero, trasognato e delicato.
L’artista si presenta e fa qualche battuta sulla sua fragilità, «evidente nella musica come sul palco».
Direi che fragilità è l’aggettivo che meglio descrive i temi al centro della proposta di questo giovane cantautore: le melodie sono semplici e non impegnative, adatte ad un ascolto casuale.
È proprio la leggerezza la chiave di volta di questo artista, che ripone tutta la sua verve creativa in un mood easy listening.
Data la semplicità del genere, sono assenti esecuzioni chitarristiche e performance vocali fuori dagli schemi più classici – insomma, non c’è spazio per virtuosismi.
Lo show non ha come centro focale l’intrattenimento: Keenan da solo sul palcoscenico non può ovviamente fare fuochi d’artificio, complice anche un light show fermo su di lui con un risultato di staticità totale che catalizza l’attenzione sul cantato e sull’accompagnamento.
La sua proposta è molto intimista, molto distante dalle sonorità folk dal contesto più sociale tipiche del genere americano.
Si direbbe che il nostro è un artista più adatto ad alcuni pub unplugged che non ad essere proposto dal vivo in un rock club.
I suoi trenta minuti di set comunque passano, prima del cambio palco che accoglierà Duchovny.
Oltre alla carriera su grande e piccolo schermo, negli anni Duchovny si è guadagnato un seguito come musicista, testimoniato dalla folla di fan che urlano il suo nome.
Questo tour promuove il suo terzo album, “Gestureland”, pubblicato durante la pandemia e dalle sonorità che richiamano il pop californiano degli anni Settanta, l’alternative rock, il folk e il country.
David Duchovny vanta anche due pubblicazioni precedenti, “Hell or Highwater” del 2015 e “Every Third Thought” del 2017.
Il nostro idolo si fa attendere e anche se il cambio palco è durato poco e la backline è pronta da un pezzo, più di trenta minuti di attesa prima dello spegnersi delle luci non pesano chissà quanto.
Inizia lo show e sale sul palco la band, accolta da un intro che dà la carica, tipico degli show dell’artista statunitense.
I musicisti iniziano a suonare e ciò che si nota subito è l’elevata caratura della band.
L’ensemble è composta da Colin Lee, Mitch Stewart e Pat McCusker, tre ex compagni di studi al Berklee College of Music e session man di lunga data, che hanno lavorato con Duchovny in tutti i suoi dischi.
I suoni sin dall’inizio sono ottimi, con il giusto equilibrio tra tutti gli strumenti.
Ma arriviamo a Duchovny, acclamato con affetto ed entusiasmo da tutti.
Nonostante la sua voce non sia particolarmente tecnica, nel complesso della proposta ci sta.
Così come ci stanno tutte le stonature, coperte alla meglio dai cori della band.
Il light show è azzeccato e impreziosisce un palco che, assente di scenografia, risulterebbe altrimenti poco entusiasmante.
Il frontman fa il suo dovere e intrattiene molto bene: conversa il giusto presentando la genesi di ogni brano e i vari riferimenti che è andato a recuperare molto spesso dalla storia italiana.
‘Tessera‘ è dedicata al fratello, ‘Roman Coin‘ narra di un suo peso interiore.
In tutto questo, i suoni sono veramente cristallini: gli strumenti si sentono distintamente senza mai impastarsi, anche durante gli assoli di chitarra o brani più lenti come ‘Sea Of Tranquillity‘ nessuno sovrasta gli altri.
La voce è protagonista ma non scavalca l’insieme dato dall’esecuzione della band, che porta avanti tutti i brani eseguendo il compito alla perfezione, senza rubare la scena al leader.
Anche i brani che includono chitarre acustiche sono bilanciati, le chitarre suonano bene e sempre intellegibili.
Carino il brano che inizia con un’intro strumentale ricolmo di citazioni – ed è difatti una cover di ‘Sweet Jane‘ dei Velvet Underground.
Il set di Duchovny vola veloce come la luce, la leggerezza ed il brio di questa proposta catturano senza appesantire con momenti prolissi o eccessivi virtuosismi.
Un rock show leggero adatto a tutte le età, in un contesto adeguato e ben organizzato.
Un altro grande successo per un artista che aspettavamo in Italia da parecchio tempo.