Daniele Silvestri, cronaca di una serata (non) come le altre
Sembra una serata come le altre ventinove – non lo sarà, ma ancora non lo sappiamo.
Dopo ventiquattro giorni, torna Daniele Silvestri sul palco della Sala Petrassi, dell’Auditorium Ennio Morricone di Roma.
L’undicesimo dei trenta concerti da “resident”, per festeggiare i trent’anni di carriera.
Secondo alcuni sono un azzardo, secondo altri una botta di ego, secondo altri ancora la giusta celebrazione della sua città per uno dei rappresentanti più interessanti, originali e creativi di quella che è considerata l’ultima ondata della tradizionale canzone d’autore. Io lo scoprirò tra un po’
A vederlo da fuori non sembra un concerto: assomiglia, piuttosto, a un incontro tra un artista e chi lo ha amato, giorno dopo giorno, nel corso degli anni. Pubblico di età eterogenea. Ci sono quelli dei tempi del “Locale”, lo storico ritrovo a pochi passi da Piazza Navona che diede il lancio alla “scuola romana” di metà anni Novanta, quelli che erano davanti al televisore durante il Sanremo del 1995 in cui richiamava, nella soluzione scenica dell’utilizzo dei cartelli riportanti parti di testo, il Dylan di “Subterranean Homesick Blues”, chi invece lo ha scoperto già affermato ai tempi de ‘La Paranza‘ e qualche teenager della Z Gen.
E questa dimensione del ritrovarsi tra amici che si raccontano cose, è data anche dall’allestimento scenografico. Palco allestito come un salotto, con diverse abat jour colorate che riscaldano e si mescolano tra i musicisti, i compagni di sempre. Piero Monterisi alla batteria, Gabriele Lazzarotti al basso, la mano del diavolo di Daniele Fiaschi alle chitarre elettriche, Gianluca Misiti e Duilio Galioto alle tastiere e synth, Marco Santoro al fagotto e tromba, Ramon José Caraballo alle percussioni e anch’egli tromba e l’inseparabile Daniele “IlMafio” Tortora, lassù in galleria, dietro al mixer, alla manipolazione, o “manOpol-azione” dei suoni.
Trenta serate di racconti in musica e parole, di incontri con amici appartenenti al mondo musicale, e non solo, che hanno incrociato la sua strada ospitati in un talk show all’inizio della seconda parte del concerto. Trenta serate di viaggio attraverso la sua opera e di viaggi a bordo di un van durante i tour, o alla scoperta del mondo, testimoniati dai trent’anni di immagini di quotidianità artistica e non solo che scorrono nello schermo sul fondo del palco lungo tutta la serata.
Si parte con la prima storia dal Ponte della Musica. La sua immagine in primo piano sullo schermo di sfondo. L’appellativo di “Cantastorie” affibbiatogli da un cugino, che confida di sentirsi cucito su misura addosso. L’infanzia con il padre Alberto, sceneggiatore e autore televisivo, e il loro parlarsi in rima e «riflettendoci bene mi sa che qualcosa mi ha lasciato». Il palco, inizialmente deserto, si anima con l’entrata dei musicisti. La sua voce fuori campo inizia a guidare la band, un’intro strumentale in mi minore con qualche settima e nona. Poi appare.
Lo ripeto e continuerò a farlo. Non amo molto i concerti pop e rock in Auditorium per il distacco tra artista e pubblico e la generale freddezza dell’esperienza. Le persone sono “solo” spettatrici e non diventano protagoniste. Di questo ne ho un’ulteriore conferma dal silenzio della platea durante l’entrata. Il colpo da maestro, tuttavia, è l’accensione delle luci di sala a illuminare il pubblico. La temperatura sale e parte un convinto applauso. Recita “Pumas” uno spoken word, che chiude con i riferimenti agli studenti manganellati a Pisa e alle dichiarazioni di Mattarella dei giorni a seguire. Le celebrazioni possono avere inizio.
Raccontare un concerto come questo può essere facile o difficile. Facile perché si tratta di una festa per i fan, atmosfera distesa sul palco, tra i musicisti e tra il pubblico. I pezzi sono in genere di due tipi: quelli che hanno segnato punti di snodo della sua carriera, scelti tra i più noti o a carica emotiva più intensa, e le chicche inaspettate ripescate dal fondo di un vecchio baule appena ritrovato in una soffitta. Difficile perché le tante canzoni eseguite rischiano di trasformare il racconto in un lungo elenco della spesa e di superare qualsiasi limite di lunghezza del testo. E poi, in fondo, sai già cosa aspettarti. Allora decido di saltare qua e là, senza pensarci troppo.
C’è spazio per il suo primo lavoro omonimo, uscito giustappunto nel 1994. Arrivano ‘L’Uomo Intero’ e ‘Il Flamenco della Doccia’. Il primo eseguito in apertura, da solo al piano. Il secondo, verso la fine, aperto da uno show percussivo di Piero Monterisi sulle spie del palco e sul baule al centro della scena, e chiuso da un esperimento con i colori, in cui i musicisti sono chiamati a suonare due alla volta, mentre i restanti sei tacciono: “Per darvi l’idea di cosa voglia dire assemblare un pezzo in sala di registrazione”.
Gli unici album a esser tagliati fuori nella composizione della scaletta sono “Sig. Dapatas” e il più recente “La Terra Sotto i Piedi”. Il concerto decolla con ‘L’Y10 Bordeaux’, e raggiunge quota e velocità di crociera con ‘L’Uomo col Megafono’, la canzone della sua prima volta a Sanremo. Ogni brano è intervallato da racconti di percorsi, scoperte e incontri che hanno ispirato la sua scrittura. Sul megascreen scorrono immagini che l’artista ha estratto dal suo personale album di ricordi. Viaggi a Marrakech, Lisbona, Parigi, Berlino; sessioni di registrazioni, in particolare quelle a Lampedusa.
I toni si fanno oscuri e solenni durante ‘L’Appello’, canzone scritta in memoria di Paolo Borsellino, mentre, come sempre, alcune agende rosse si alzano sventolanti dalla platea. È una “canzone grimaldello”, circense, musicalmente scanzonata e allegra. Si abbassano le difese e i filtri e parole pesanti come macigni entrano nella testa in modo subliminale: la metafora del clown. ‘While The Childrens Play’ è la storia dei bambini mutilati dalle mine antiuomo a forma di giocattolo. Il brano si regge su lavoro di basso, percussioni e un riff di chitarra che trascina il corpo. A completare una ideale trilogia di pezzi a forte rilevanza sociale ecco ‘Le Navi’, pezzo di sostegno ad Emergency, partner di tutte le serate previste in auditorium. L’artista da solo al piano, accompagnato dal fagotto, sotto la voce di Gino Strada.
Il concerto supera le tre ore e per venire incontro inevitabili esigenze diuretiche di pubblico e artisti è prevista una pausa di un quarto d’ora. In riapertura l’ospite a sedersi nel salotto è Davide Shorty, che dopo una breve intervista, si esibisce in un free style e di seguito nell’esecuzione di ‘Fenomeno’, pezzo registrato con lo stesso Silvestri nello studio di Favignana. I due chiudono cantando insieme ‘Up In The Sky’, secondo estratto dall’ultimo “Disco X”.
La presenza di Ramon José Caraballo alle percussioni e alla tromba è un pezzo di Cuba in sala Petrassi. È il caso di ‘Precario E’ Il Mondo’, ‘Il mio Nemico’ e ‘Kunta Kinte’. Ma il brano che musicalmente merita la palma d’oro è ‘Monolocale’. Apre da solo alla chitarra classica. Entrano via via gli altri musicisti e prende forma e vita un pezzo obliquo, asimmetrico, schizofrenico, ancheggiante con cambi di tempo e incursioni rumoristiche del synth. Le percussioni impazzite come una pallina da flipper e la chitarra in feedback tiratissimi sul testo parlato. Poi un’apertura improvvisa e liberatoria, in cui spiegare le ali e la coda romantica con organo e arpeggio di chitarra classica. Pezzo difficile e coraggioso da suonare in una serata di celebrazioni. Complimenti.
Altro pezzo d’atmosfera è ‘Acrobati’: il basso lavora sul registro acuto con un arpeggio ostinato lungo lo scorrere del pezzo, mentre la chitarra tiene delle note di durata quasi infinita. Quando entrano tappeti di synth e il suono della Telecaster si liquefà. Chapeau anche qui. ‘Sornione’ è invece il ricordo di Niccolò Fabi, mentre ’La mia casa’ è un altro momento di picco energetico, tra muri di chitarre e sintetizzatori, la musica si sviluppa in verticale per un’accresciuta forza drammatica.
La band: in ottima forma, rodati e dopo più di tre settimane di sosta, con gran voglia addosso di suonare. Ogni musicista, consapevole del ruolo rivestito, sa prendersi il suo spazio quando serve e sa, al contempo, mettersi al servizio della band e dei pezzi. Un meccanismo ben oliato, con automatismi e incastri che originano da una collaborazione con l’artista che in alcuni casi si perde nella notte dei tempi.
La chiusura prima del bis è affidata ad ‘A Bocca Chiusa’, che gode di improvvisa nuova popolarità grazie all’ultima fatica cinematografica di Paola Cortellesi. Su richiesta dello stesso artista la canzone è seguita dall’applauso nella lingua dei segni, e centinaia di mani si agitano silenziosamente nell’aria.
Non sono silenziosi invece i bis, due gol a porta vuota. ‘Salirò’ e l’immancabile ‘Testardo’. Come da consuetudine il pubblico si alza in piedi e si precipita sotto al palco. Poi il tempo degli abbracci fisici tra i musicisti, metaforici tra band e pubblico, sulle note del Bowie di ‘Space Oddity‘.
Non c’è altro da aggiungere. Personalmente avrei asciugato alcuni intermezzi colloquiali, ma è comprensibile, in un incontro tra artista e i suoi fan, l’atmosfera da divano, camino, vino rosso e caldarroste. Uno specchio attraverso il quale recuperare ed ammirare le diverse tessere multicolori che hanno intarsiato la scala del percorso artistico del “cantastorie” romano, ottimo anfitrione capace di scaldare un ambiente tradizionalmente freddo come una sala da concerti. Insomma, una bella festa.
E invece no. Non è stata una festa. Sembrava una serata come le altre, lo abbiamo detto. Ma nel pieno del concerto arriva la notizia della morte di Ernesto Assante. Alcuni tra i musicisti hanno gli occhi lucidi. Lo stesso Silvestri nel darne l’annuncio ha la voce tremante. E poi ‘L’Autostrada’, stasera suonata e cantata nel suo ricordo. Una milonga accompagnata da immagini di case bianche e diroccate, paesaggi arsi dal sole. Un sud rurale, intenso, sofferto ma entusiasta verso la vita. Entusiasta, Ernesto Assante era davvero così.