Coez e Frah Quintale, la Musica dov’è?
«Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza»
– Alan Turing, 1950
Una delle più grandi menti della storia spiegava così il concetto di modello caotico.
Un sistema si definisce caotico quando la sua evoluzione nel tempo dipende dalle condizioni iniziali. Una minima variazione delle condizioni di partenza può causare enormi differenze nei risultati finali. Sistemi in cui un evento inatteso, apparentemente insignificante, nel tempo può portare conseguenze di portata gigantesca.
È l’effetto farfalla, il cui battito d’ali all’equatore può generare una tempesta al Polo Nord.
Gli appassionati di cinema sono avvantaggiati nella comprensione del concetto di caos: basterebbe pensare a “Sliding Doors”, perché tutto appaia più chiaro.
O a “Ritorno al Futuro”: il pugno che il papà di Marty McFly dà al bullo Biff provoca uno stravolgimento nella vita della sua famiglia, del quale il protagonista si accorgerà quando tornerà nel futuro.
Non ho dubbi su quale sia una delle principali biforcazioni della mia vita.
Quattro dicembre 1985, da diversi mesi Sting sta portando in tour il suo primo progetto solista dopo lo scioglimento dei Police. Esco dall’aula per l’ora di ricreazione mentre una ragazza di un’altra classe fa altrettanto. Mi vede e mi offre il suo biglietto per il concerto che lo stesso avrebbe tenuto quella sera al Palaeur: accetto senza neanche sapere bene perché. Alle due di pomeriggio sono in fila ai cancelli, i golden pit sarebbero arrivati solo alcuni decenni dopo e quel giorno la transenna va guadagnata.
Da allora la mia vita non è stata più la stessa. Non voglio sapere cosa sarebbe accaduto se quella ragazza, quella mattina, avesse incontrato qualcun altro.
Motivo per cui ogni volta che torno al Palazzo dello Sport dell’Eur mi emoziono.
Anche stasera, sebbene tante cose siano cambiate da quel giorno.
Una tra tutte: nel 1985 i venditori di gadget abusivi mi offrivano braccialetti e bandane degli artisti, oggi non mi degnano di uno sguardo.
Allora mi sa che l’abusivo sono io.
La persona che, suo malgrado, mi sopporta quotidianamente senza che io abbia capito come faccia e soprattutto cosa glielo faccia fare, mi avvisa del suo prossimo arrivo con un messaggio che mi mette in allarme: «Mi hanno detto che è un bello spettacolo».
Torno immediatamente a quel tempo di speranze e disillusioni dell’adolescenza quando l’amica di turno mi decantava le lodi della sua amica, a suo dire perfetta per me – «È davvero simpatica e in gamba. Ti piacerà tantissimo».
Forse dovrei scappare anche stasera.
Non lo faccio, ed entro dal cancello VI del Palazzo dello Sport abbassando al minimo il volume di una voce interna che mi ripete il monito del nono verso del canto III dell’Inferno.
In fondo qualche mese fa Lazza seppe stupirmi, quasi quanto qualche anno fa Carl Brave mi divertì, complici i vini delle Langhe, in quel di Barolo.
Percorro il corridoio esterno al primo anello del Palaeur, un budello stretto e basso che oggi non supererebbe il collaudo sicurezza degli enti preposti alle verifiche, e tanti saluti a Pier Luigi Nervi.
Apro una delle tante porte tagliafuoco disposte su uno dei due lati e capisco finalmente cosa provassero i pellegrini prima dei Patti Lateranensi quando, uscendo dalla Spina di Borgo, si ritrovavano nell’immensità del Colonnato di Piazza San Pietro.
Io sto meglio di loro, però.
Le hostess dell’accoglienza sono sempre gentili, affabili e con bel senso dell’umorismo.
Mi dico che dovrei complimentarmi con la società di recruiting: l’ho fatto ora.
Parterre e tribune si riempiono, è aperto anche il terzo anello: non ho i dati ufficiali ma saremo diecimila se non qualcosa di più.
Il mio posto numerato a sedere è centralissimo, immediatamente sopra il parterre: se non mi piazzassi in piedi, al lato del mastodontico banco di regia, mi troverei accerchiato da teenagers.
Invece lo sono dai Vigili del Fuoco che durante lo spettacolo avranno un gran da fare a vigilare non tanto il fuoco quanto il fumo delle sigarette fumate di nascosto.
Il palco è mastodontico e al tempo stesso semplice: display con lettere gigantesche che riproducono la grafica e titolo del disco, alternati con le immagini dei protagonisti sul palco.
Due pedane laterali, protuberanze verso i fan più fedeli e calorosi.
Disposti a semicerchio da destra a sinistra per chi guarda ci sono batteria, basso, tastiere, elettronica e piatti, ancora tastiere e chitarra elettrica.
Luci semplici, ma l’impianto è di Cristo: utilizza la tecnologia L-ISA, il sistema utilizzato da Jean Michelle Jarre per i suoi live, tanto per esser chiari.
Sette cluster, suono immersivo e iperreale così come da definizione del produttore stesso.
Tergiverso, la prendo alla lontana.
Tengo palla senza tirare in porta e vorrei che quest’attesa durasse all’infinito.
Solo un giorno fa, mentre attendevo l’entrata in scena di Lucio Corsi mi abbandonavo a filosofia inutile sul pericolo delle aspettative, stasera tocco con mano quel pericolo.
Pochi giorni fa ho ascoltato “Love Bars”, ultima uscita di Coez e Frah Quintale, con curiosità.
E questa uccise il gatto.
Dodici tracce, testi da gita delle medie, sentimenti da hard discount in offerta speciale un tanto al chilo, musiche da Cornetto Algida.
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Rivaluto di gran lunga i lavori dei trapper di strada; figa, ferro, cocco, Lamborghini e Rolex. Cresciuti nella merda di San Basilio, Quarto Oggiaro, Scampia, Barriera di Milano. Scimmiottano in modo esagerato i rapper dei ghetti neri, nulla di particolarmente innovativo. In alcuni casi sfiorano il grottesco.
Ma cantano la merda in mezzo alla quale sono cresciuti e dalla quale cercano con mezzi, leciti o meno, di venir fuori.
Ma sono credibili e mi arrivano, poi che mi piacciano o meno è altra storia.
Che ci faccio qui? Penso che una parte di me voglia recuperare i miei sedici anni, affogati nella mia marana emotiva. E all’inizio mi diverto.
Non è la musica ma quello che le succede intorno.
Invidio le rockstar e le popstar perché nei live sono le uniche persone che si godono il vero spettacolo: il pubblico.
Stasera, tuttavia, il pubblico è l’unico spettacolo: diecimila persone, in prevalenza ragazzine, che passano le due ore del concerto a cantare all’unisono con i loro beniamini, ma dura poco.
Penso a Bastogne.
Non la cittadina delle Ardenne teatro di una decisiva battaglia della Seconda Guerra Mondiale e punto intermedio di una famosa classica di primavera del ciclismo internazionale, ma un romanzo di Enrico Brizzi, la versione oscura di Jack Frusciante.
Spoiler Alert: i due protagonisti del romanzo incontrano a una festa due ragazze della buona borghesia, che con aria annoiata definiscono la musica dei Public Image Limited di Johnny Lydon “musica da tinello”.
E firmano la loro condanna a morte, che i protagonisti decidono di infliggere loro come gesto di pietà, che possa risparmiar loro il resto di una vita insulsa e immersa nella vacuità del loro essere.
Penso a Bastogne e mi immagino armato di bazooka, qui dai mixer, a compiere quell’atto misericordioso che salvi migliaia di vite e le privi dell’inevitabile disillusione e decadimento della loro esistenza.
Perché quella che sto ascoltando ora è musica da hard discount.
Un cinepanettone sonoro, ben confezionato ma spersonalizzato e privo di carattere in modo da consentire al maggior numero di persone possibili la proiezione di parti di sé, riconoscersi in esse e conseguentemente decretarne il trionfo. Più la scatola è vuota, più funziona.
È la legge del fan, alla quale quasi tutte le star devono sottomettersi. Per esigenze di 730 o di un Ego sempre più pressante. Soprattutto nell’epoca in cui like, followers e numero di streaming diventano moneta sonante e rilascio di dopamina nel sistema nervoso centrale.
In pochi mesi puoi trovarti sparato gli anelli di Saturno così come impantanato tra le sabbie mobili dell’oblio collettivo.
Meglio non rischiare, non rinnovarsi, e pescare a strascico e di quello che resta impigliato nella rete.
Del maiale non si butta nulla.
Rare le eccezioni, una tra tutte: la premiata ditta Yorke & Greenwood, che da “Pablo Honey” a “Wall of Eyes” del rischio di deludere il loro pubblico han fatto arte sopraffina.
È la regola del successo di massa, dei sold-out a tutti i costi, che siano veri o falsi.
Ma questa legge nasconde un corollario taciuto, come polvere messa sotto al tappeto persiano ereditato dalla zia ricca. I fan non lo sono degli artisti quanto di sé stessi.
Lo sono dei loro vent’anni, degli eventi e delle emozioni concomitanti alla fruizione del prodotto musicale.
E la critica al beniamino diventa un attacco all’identità e alla storia personale.
Per questo ci si inalbera e si scatta come punti da un pesce scorpione, che tu abbia vent’anni o quarantacinque.
In questo secondo caso condizione necessaria è anche la regressione all’adolescenza, se non ci riesci ti aiuta Facebook.
Non è questo l’aspetto che mi fa pensare. A diciotto anni è giusto e augurabile lasciarsi avvolgere e travolgere dal fanatismo.
Quello che sta accadendo davanti a me, conferma la marginalità della musica, in senso stretto, nella vita di gran parte dei teenagers. Contorno dell’autocelebrazione di sé stessi attraverso le migliaia di smartphone impegnati nelle dirette video. Il rito da collettivo diventa diadico, imprigionato nel tunnel senza uscita individuo-display, mediatore fondamentale e garante dell’esistenza di chi lo brandisce sopra la moltitudine di teste davanti a lui. Esistenza certificata attraverso la condivisione social della presenza all’evento.
Dovrei raccontare del concerto, lo so, ma mi resta difficile farlo.
Di solito entro molto facilmente nel flusso energetico dei live, anche di quelli che non mi colpiscono particolarmente.
In quel caso li critico, cercando di motivarne le ragioni.
Il segnale del coinvolgimento mi viene sempre dal corpo, si anima di vita propria e inizia a seguire il flusso del beat.
Stasera sono in piedi, immobile come davanti a un distributore automatico di bevande.
Nella scaletta inviatami dal mio angelo custode durante i concerti, sono previsti a tavolino anche gli intermezzi colloquiali con il pubblico.
Sì, è un bello spettacolo: costruito alla perfezione ma privo della spontaneità, della mancanza di controllo, degli errori, delle imperfezioni e dei fuori programma che rendono un live unico e irripetibile.
La sequenza dei pezzi è ininterrotta, le canzoni raramente superano i tre minuti e mezzo.
Quasi sono “skippate”, l’una dopo l’altra per un pubblico la cui durata del periodo di attenzione selettiva verso un unico stimolo si sta riducendo a pochissimi minuti.
Uno spettacolo pensato per il successo, per la perfezione, per piacere a chiunque.
Una macchina da sold out ininterrotti e che riesce nel suo intento.
Uno spettacolo sul quale massicci sono stati gli investimenti di ogni tipo e che trovi pubblicizzato anche sugli schermi delle carrozze delle Frecce di Trenitalia.
Uno al quale, se facessi il gioco inutile e scemo dei voti, darei un non giudicabile.
Ed è un peccato, perché invece in alcuni pezzi i ragazzi dimostrano di avere stoffa.
‘Wu Tang’, brano di Coez, ha una ritmica, grintosa, cattiva, che spinge a pompa; ‘Missili’ di Frah Quintale, con l’entrata a sorpresa di Giorgio è carina e si ascolta bene.
Sicuramente meglio da soli che non insieme.
Più in generale, quando recuperano quella necessaria energia e cattiveria, quando parlano il linguaggio del “dionisiaco” allora recuperano credibilità, impatto, sostanza.
Ma dura poco. Molto poco.
Finisce dopo la presentazione della band, equamente divisa a metà, e il saluto degli artisti ai loro cartonati a grandezza naturale innalzati da un gruppo di fan.
Poi mi godo lo spettacolo del pubblico che sciama fuori. Penso sempre che uno stadio o un Palasport vuoti dopo un concerto è un’immagine che sarebbe stata cara a Fellini.
Poi a uscire tocca a me.
I volti delle ragazzine sono luminosi e felici.
Alla fine, la musica serve a questo e chi sono io se non un vecchio invidioso del tempo che passa?
Forse se fossi stato nel parterre sarebbe stato diverso, magari ho giocato troppo a fare lo snob dei miei stivali anziché godermela.
Magari se hanno tutto questo successo vuol dire che la qualità è presente: se piacciono così tanto forse le canzoni sono belle davvero (interrogativo che si dissolve quando ricordo quale sia la squadra italiana con il maggior numero di tifosi).
Fuori dal PalaEur le macchine di doppia fila con le quattro frecce lampeggianti e genitori in attesa dell’uscita dei pargoli non patentati. Mi piace cogliere frammenti conversazione.
Un ragazzo, 17 o 18 anni, faccia perbene e ingenua, rivolto a una ragazza: «Mi devi girare i video. Mi si è scaricato il cellulare su ‘La Musica Non C’è’».
Come diceva Turing, se trentotto anni fa avessi atteso qualche secondo in più prima di uscire dalla classe, oggi sarei passato in armeria prima del concerto.
Non saprà mai cosa ha rischiato il cucciolo.
Saluto il Palazzo dello Sport, forse lo ritroverò con i Subsonica, Torino non tradisce mai.
Probabilmente andrà meglio.
Roma, 27 gennaio 2024
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© Emanuela Vh. Bonetti