Oca Nera Rock

Turn ON Music

CARACALLA FESTIVAL 2024 | John Legend

Che sia un serata diversa da quelle cui sono abituato a presenziare lo capisco abbastanza presto. A piedi, costeggiando la ciclabile che porta a Caracalla, sorpasso signore e ragazze con l’abito buono per quella che dovrà nelle intenzioni essere una serata indimenticabile.

Il comunicato stampa recita: “An Evening With John Legend – A Night Of Songs And Stories”. Che sia qualcosa di esclusivo lo confermano i posti scelti dall’artista per far da cornice al suo show. La maestosità delle Terme di Caracalla stasera e l’Anfiteatro di Pompei domani, faranno da contraltare a un concerto semplice ed essenziale. Un one man show, voce e pianoforte a coda che giganteggia al centro di un palco senza null’altro. Agli effetti speciali ci pensa il contorno, incluso il colpo d’occhio delle 4600 persone convenute.

I fotografi, costretti al mixer dalle richieste della produzione, reprimono imprecazioni nei confronti dei ritardatari che passano davanti ai loro teleobiettivi. L’artista si presenta sul palco vestito di blu. Il suono del piano rasenta la perfezione, pulizia e calore in egual misura. L’apertura è affidata a Let’s Get Lifted Again’, uno dei suoi primi successi. L’ingegnere del suono si meriterà i miei complimenti, ma non ci vuole un grande orecchio per capire che è soprattutto una questione di tocco e anima dell’artista, che da questo punto di vista esce vincitore fin dalle prime note.

John Legend

Non c’è band, non c’è elettronica, ma non te ne accorgi. Suona e canta senza rete, una voce ricca di armonici naturali che riempie ogni spazio e che può fare a meno di qualsiasi strumento. Anche del pianoforte, come testimonia l’esecuzione a cappella di ‘God Only Knows’ omaggio ai Beach Boys di “Pet Sounds”. L’intonazione è perfetta e non manifesterà mai un’incrinatura nelle due ore e un quarto di concerto. Le canzoni scelte sono i suoi più grandi successi. Inanella in sequenza ‘P.D.A. (We Just Don’t Care)’ e ‘Tonight (best you Ever Head)’ e dalla mia posizione in alto, al mixer, colgo l’eco del suo suono che rimandato dalle costruzioni romane alle mie spalle. Non male davvero.

Oltre a quella già citata, diverse sono le cover della serata: con ‘Ribbon In The Sky’, di Stevie Wonder, ricorda l’esecuzione che l’autore di ‘Superstition’ fece al suo matrimonio; ‘Bridge Over Troubled Water’ di Paul Simon è eseguita in memoria della nonna. ‘Dancing in The Dark’ di Bruce Springsteen gioca al piano con le dinamiche e i pieni e vuoti; ‘Take My Hand Precious Lord’ un gospel del 1937 composto da Thomas Dorsey richiamo agli anni trascorsi nel coro della chiesa; ‘Redemption Song’ di Bob Marley sono brividi veri.

‘Stay With You’, sincopata e carica di swing ci accompagna alla pausa di un quarto d’ora. Rientra con un elegante abito bianco per la seconda ora di spettacolo. In ‘Ordinary People’ dimostra ottime doti di pianista jazz; ‘Wonder Woman’, cantata sopra la base, è l’unico brano che fa eccezione alla regola della voce e piano. In esso è più che evidente il suo debito al Marvin Gaye di ‘Let’s Get It On’.

Il legame con quest’ultimo gli dà modo di esternare il suo impegno politico. La lotta attraverso la sua musica per i diritti civili della popolazione nera degli Stati Uniti, «a dispetto di chi mi dice dovresti star zitto e pensare solo a cantare».  ‘Glory’ è il momento più intenso del concerto; il climax energetico ed emotivo. Canzone inserita nella colonna sonora del film “Selma”, che ricorda le marce del 1965 da Selma a Montgomery, in Alabama, apice della lotta per il diritto di voto degli afroamericani.

Jazzata è ‘Good Morning’, canzone d’amore dedicata alla moglie, forse un po’ stucchevole e melensa. Sicuramente più incisiva ‘All of me’, durante la quale le intense effusioni di una coppia alzatasi in piedi sposta per alcuni secondi l’attenzione dal palco alla parte alta della platea.

John Legend è un talento incredibile. Cresciuto nelle migliori palestre R’n’b’, soul e blues: le Chiese battiste pentecostali. Nipote di un pastore, mamma organista e nonna direttrice del coro (o viceversa), cresce e respira musica nera fin dalla nascita.

«L’ambiente era rigidamente conservatore, sarei già all’inferno per le tre canzoni cantate finora. Poi ho scoperto la musica laica e la Motown»

Siede al piano, libera le corde vocali e ipnotizza come il Pifferaio di Hamelin. Per due ore tiene il palco e la scena come raramente ho visto fare, dimostrando anche eccellenti capacità attoriali e di intrattenitore. Diverte nei suoi racconti, ha umorismo, tempi comici e le pause giuste al momento giusto ma…

…ma tutta la serata è un’autocelebrazione narcisistica ed egocentrica. Protagonista non è la musica, ma sé stesso. Almeno una, delle circa due ore e un quarto di spettacolo, è occupata dal racconto di tutta la sua vita, dai primi anni fino a questa sera. Ai suoi lati, due megaschermi traducono in tempo reale le sue parole e le accompagnano talvolta con delle foto. Unico neo in una perfetta regia dai tempi precisi: gli errori grammaticali della traduzione italiana (che non ti aspetteresti da uno show così curato nei particolari). L’infanzia in una umile famiglia del Midwest, il talento musicale fin dai primi anni di età, lo studente prodigio diplomatosi con due anni di anticipo. Infine il lavoro come consulente aziendale e al tempo passato a far presentazioni Powerpoint e riempire tabelle Excel.

Poi il successo, le frequentazioni con persone importanti, da Stevie Wonder che canta al suo matrimonio a Kanye West che era il cugino di un amico, i suoi tanti featuring, dalla sua prima parte di piano in ‘Everything Is Everything’ di Lauryn Hill, a tutti gli altri lavori «in cui ho lasciato la mia indelebile impronta musicale». Immancabile le foto del suo matrimonio, neanche a dirlo sul Lago di Como, fino al cambio di cognome, da Stephens a Legend (‘na cosetta umile, insomma) e alla chiusura con il botto: «Ho capito di avercela fatta quando nello stesso giorno mi hanno telefonato Magic Johnson e Oprah Winfrey».

E realizzo che non è la sua vita, è la sceneggiatura di “Forrest Gump”. La storia scorre divertente, leggera ma totalmente egoriferita, e alla lunga risulta stucchevole. Il trito e ritrito sogno americano traslato dal cinema al palco di un live. E 195 euro, il costo delle poltronissime delle prime quindici file, per un’ora di musica e un’ora di lettura del copione di un fumettone hollywoodiano, è un pelo esagerato. Per me, ma magari anche per qualcuno che li ha effettivamente spesi.

Roma, 10 giugno 2024

Photo Gallery

© Giulio Paravani

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.