Caligula’s Horse, il progressive che arriva dagli antipodi
Forti del legame piuttosto intenso che si è venuto a creare con il pubblico italiano, i Caligula’s Horse tornano in città per la seconda volta in meno di dodici mesi, con somma gioia di chi scrive che, purtroppo, a quel concerto dello scorso mese di agosto allo Slaughter non aveva potuto partecipare. La gioia in realtà sarebbe addirittura doppia, perché nel frattempo il quartetto australiano ha dato alle stampe un nuovo album, arricchendo di aspettative l’attesa per il concerto di questa sera.
“Charcoal Grace” è un disco splendido, una piccola gemma che brilla di una bellezza oscura, scoprendo l’ennesimo lato inedito di una band in continua evoluzione. Perché spesso e volentieri dimentichiamo che il termine progressive non dovrebbe sottintendere solo lunghe suite con mille cambi di tempo ed un’ossessione filo-onanistica per la tecnica strumentale, ma anche e soprattutto una naturale progressione compositiva.
Il palco del Legend prende vita molto presto, questa sera. Due le band ospiti, chiamate a riscaldare l’atmosfera per gli attesissimi headliner. Sono solo le 20.10 quando i Four Stroke Baron, terzetto americano proveniente dal Nevada, inaugura la serata con il proprio peculiare sound abbastanza poco inquadrabile con una semplice etichetta, data la moltitudine di sonorità riscontrabile in una proposta musicale che mescola abilmente math-rock, nu-metal, melodia ed elettronica. Li abbiamo trovati strumentalmente molto interessanti, mentre poniamo qualche riserva sull’uso massiccio di filtri sulla voce, che alla lunga stanca non poco. Con due album ed un paio di EP alle spalle, la band uscirà a fine mese con un nuovo disco (“Data Diamond”) da cui questa sera vengono presentati ben quattro brani, tra cui citeremmo ‘The Witch’ e ‘Prostitute Part II’. Nella mezz’oretta a disposizione trovano spazio anche tre brani dagli album precedenti, con i ritmi sincopati di ‘Friday Knight’ in bella evidenza.
Il secondo slot spetta invece a The Hirsch Effekt, trio tedesco proveniente da Hannover che si muove tra tra math-core e progressive metal, dando vita ad un sound convulso ed a tratti nevrastenico su cui svetta la personalità di Nils Wittrock, cantante e chitarrista di una band che ha davvero scaldato la serata con un set vibrante e dal tiro micidiale, grazie ad una manciata di brani al fulmicotone che non hanno faticato molto a far breccia nel pubblico presente, che sulla conclusiva ‘Lifnej’ accenna anche ad un principio di pogo Davvero interessanti, non avendoli mai sentiti prima d’ora crediamo valga davvero la pena andare ad approfondirli.
Le luci si spengono per l’ultima volta alle 22:00 quando parte l’intro che accompagna l’ingresso in scena di Sam Vallen (chitarra), di Josh Griffin (batteria) e del baffuto bassista Dale Prinsse. Prendono posizione e danno il via al concerto con ‘The World Breaths With Me’, con quel suo lungo incipit strumentale al termine del quale anche il front-man Jim Grey raggiunge il palco, per accompagnarci metaforicamente nei meandri della melanconica oscurità che caratterizza “Charcoal Grace”, il nuovo album della band. Dieci minuti di emozioni contrastanti, con quei bridge ariosi che si fondono con l’incisivo chorus sui cui si regge il brano, dominato dalla chitarra di Vallen e dalla splendida voce di Grey.
Si prosegue quasi senza soluzioni di continuità con una roboante ‘Golem’, altro estratto dal nuovo disco. Jim Grey inizia ad interagire con il pubblico, in primis invitandolo a saltare. Grey è un front-man quasi atipico per una band che suona prog-metal, e quando non canta di certo non fa nulla per nascondere la sua istrionica verve ‘down under’. «Siamo già stati qui qualche anno fa», dice Grey, riferendosi al concerto che tennero al Legend nel lontano 2018 pre-pandemico. In particolare fa riferimento alla colonna che fa bella mostra di sé sul palco del locale, che Grey corre ad abbracciare: «vedo che questa colonna è ancora qua. Bene, vi presento il quinto membro della band», dice tra le risate generali.
Il concerto riprende con un balzo a ritroso nel tempo con cui torniamo al 2015 quando usci “Bloom”, celebrato questa sera proprio con la title-track, che nel finale si fonde con ‘Marigold’, uno dei brani più celebri della band. In effetti ci saremmo aspettati in scaletta una maggior presenza di “Charcoal Grace”, che viene temporaneamente abbandonato per lasciar spazio a “Rise Radiant” (‘TheTempest’ ed i singoli ‘Slow Violence’ ed ‘Oceanrise’), e a “In Contact”, di cui abbiamo apprezzato tantissimo una ‘The Hands Are The Hardest’, un brano molto raramente eseguito in sede live.
Il main-set si conclude con un ultimo sguardo sul nuovo disco, con due botte assurde come ‘The Stormchaser’ e soprattutto ‘Mute’, il brano che chiude magnificamente l’album, con i suoi dodici minuti che complementano alla perfezione l’iniziale ‘The World Breaths With Me’. Uno spettacolo.
La pantomima dell’uscita di scena prima di rientrare per i bis dura grazie al cielo solo pochi secondi, giusto il tempo di presentare ‘Daughter Of The Mountain’ ed immergersi nell’ennesimo epico pezzo che permette alla band di chiudere il concerto sotto una pioggia scrosciante di applausi.
Dal punto di vista strettamente musicale, i Caligula’s Horse si son presentati qui a Milano in splendida forma e carichi di entusiasmo, talmente in palla che anche l’assenza della seconda chitarra (il dimissionario Adrian Goleby non è più stato sostituito) è passata di fatto inosservata, ampiamente coperta dal lavoro extra di Vallen. Sempre più apprezzato, il quartetto di Brisbane va ad affiancarsi a formazioni connazionali come Ne Obliviscaris, Voyager, Be’lakor e Karnivool nell’impresa improba, sulla quale probabilmente nessuno avrebbe scommesso un centesimo, di portare (o ri-portare) l’Australia all’interno dell’Atlante del Rock, con una scena prog-metal che mai come oggi si sta rivelando vitale, rilevante ed assolutamente concorrenziale con le rispettive controparti americane ed europee.