Calexico live a Milano: al di qua e al di là della frontiera
Da Roma a Milano, i Calexico salgono salgono sul palco dell’Alcatraz il 14 marzo, proseguendo questo tour europeo primaverile a supporto della recente uscita di “The thread that keeps us”, ultimo lavoro in studio di una carriera più che ventennale.
La band originaria di Tucson, Arizona (città vicina alla frontiera meridionale degli Stati Uniti che anche The Beatles vollero ricordare in un loro pezzo) si è ritagliata una nicchia nella scena alternativa godendo di ottima visibilità, conciliando con ottimi risultati i suoni del rock con la tradizione country e presentandoli sotto l’influenza di sonorità latine con una miscela che può essere definita tex-mex.
Il progetto Mexican Institute Of Sound apre la serata, rimanendo assolutamente a tema e presentando anch’esso una originale miscela di suoni, di matrice ovviamente latina ma senza entrare nello stereotipo. Camillo Lara e i suoi sodali impiegano un bel mucchio di strumenti, inclusa una sezione fiati che non si fa troppo invadente, e spaziando anche nella musica elettronica hanno un buon ritmo e una bella presa sulla platea.
La formazione con cui i Calexico si presentano è decisamente corposa, otto elementi a occupare il palco dell’Alcatraz. Riff accattivanti di chitarra blues rock per l’inizio, la voce di Joey Burns con un timbro basso, solo un tocco di pianoforte a ravvivare. Ci vuol poco ad ammorbidirsi e a prendere la via del folk, già dal secondo pezzo ‘Voices in the field‘, con chitarre a giro e battimani del pubblico. Il passo è lento e ponderato, scandito dai fiati, e l’atmosfera si sposta ben presto oltre frontiera.
Il pacchetto nostalgico dei Calexico esce completamente allo scoperto, fiati e corde si sprecano e la fisarmonica va a rimorchio. I brani nuovi invece si staccano un po’ dal confine, abitano meno verso sud, e la presa viene tenuta salda giocano su grandi alternanze, tra veloce e lento, caldo e composto, fiati e chitarre, con combinazioni sempre differenti. A fare da filo conduttore la voce, che rimane quasi immutabile in tutti questi percorsi a zig zag.
Con ‘Flores y tamales‘, cantata interamente in spagnolo di seconda voce, è subito Cinco de Mayo. Quando i Calexico si spogliano dei suoni folk sono sentimentali come il classic rock delle ballatone di un paio di decenni fa, poi all’occorrenza diventano più strutturati e solenni. La parte di mezzo del set è una frazione molto lenta, risvegliata dai fiati leggeri, anche se la parte vocale è sempre bella piena. Come accade nelle più becere commedie americane, quest’atmosfera slow viene spezzata con una sorta di partenza per lo “spring break” in Messico.
Viviamo una divagazione completa nella musica popolare ispanica, con Joey Burns che ogni tanto prova a riprendere leggermente le redini della situazione, ma ormai i Calexico sono in completo svacco dal sapore tex-mex. Un tocco di contemporaneità, di cui forse avremmo fatto a meno senza grossa disperazione, è nel passaggio rap in spagnolo, prima di riprendere una linea melodica e convenzionale per la chiusura di set, tra ‘Crystal frontier‘ e ‘Music box‘.
I Calexico hanno in serbo un encore corposo, attaccato in chiave quasi funk con bassi consistenti e una tromba sopra le righe. ‘Sunken waltz‘ è eseguita a tutto cuore, con voce e chitarrone, poi arriva il momento del festone un po’ tamarro che mescola elettronica e fiati. La cover di ‘Bigmouth strikes again‘ non si discosta molto dallo stile The Smiths, a parte il ritornello in chiave stadio.
Un nuovo e contenuto degenero in fiesta prima di un ulteriore rallentamento di questo interminabile bis che termina in maniera emblematica, con un medley lanciato da ‘Guero Canelo‘ nel quale i Calexico si esprimono in una versione assolutamente fedele a quello che da loro ci si potrebbe aspettare.