Cake, il rock esorcizza ogni negatività
Un pezzo di storia della scena americana alternativa, molto alternativa, prende possesso il 21 ottobre dell’Alcatraz di Milano, con i californiani Cake e il loro estroso leader John McCrea a ripercorrere le molteplici facce della loro trentennale carriera. In attesa di un nuovo capitolo, con un album in uscita atteso nei prossimi mesi, ci sono numerosi e diversissimi dischi da cui attingere, come pure dalla loro dissennata passione per le cover.
Non c’è alcuna apertura, solo un’introduzione dal taglio epico cinematografico, al quale fa da contraltare un attacco dei Cake a passo felpato, con plettrate un po’ scordate e il timbro di voce tipicamente svogliato, e un morbido afflato di tromba. Il rock ben ripulito fa capolino con ‘Sinking ship‘, dall’incisiva progressione di rullante. Il basso e i coretti riempiono ‘Long time‘, per arrivare al pop nitido e al calore nostalgico di ‘Perhaps, perhaps, perhaps‘, un po’ swing e un po’ funk.
È tutto molto adulto in questo concerto: l’orario di inizio, l’età media del pubblico, l’avversione espressa da John McCrea, sin dai primi simpatici sproloqui, nei confronti delle nuove tecnologie, delle nuove abitudini e del modo di vivere i concerti attraverso uno schermo e un obiettivo. Plettrate sorde e voce inscatolata tirano fuori il lato garage dei Cake, che fanno del vero crossover, sia all’interno dei pezzi sia attraverso i pezzi. L’aria seriosa ma scanzonata, a tratti pure menefreghista, esorcizza ogni negatività, con un’impostazione da post-fricchettoni.
Dopo una lunga pausa di metà spettacolo, e il rientro con un giochino semiserio che regala a una persona tra il pubblico una pianta di pompelmo, i Cake rilanciano il rimbombo delle chitarre, seguite dal basso che si fa funk e la tromba a completamento, per ripartire in quarta con ‘Love you madly‘. Il secondo anno si prospetta decisamente ancheggiante, non c’è intenzione di colpire e di graffiare, nei pezzi mossi come nei pezzi lenti, lo scopo piuttosto è quello di irretire.
Giri semplici e voce morbida, con gli innesti di tromba che si fanno carico delle variazione, per arrivare al cavallo di battaglia dei Cake, che poi è lo storico rifacimento di ‘I will survive‘ di Gloria Gaynor, che suona come un chiaro e controverso inno all’indolenza sfociato in una vorticosa e lenta convulsione. Si chiude poi anche questo set con ‘Never there‘, un altro atto di devozione al funk in tonalità minore.
È chiaro che i Cake debbano nuovamente uscire sul palco, per un caloroso e affettuoso saluto da vecchi amici e già che ci siamo anche per un encore. ‘Short skirt/Long jacket‘ ha effetto immediato, è un grande traino che sale sempre di più, tra le declamazioni di John McCrea. È un’altra cover, quella di ‘War pigs‘ dei Black Sabbath, a dare la prima vera sferzata della serata, una grezza e psichedelica frustata di autentico rock. Maggior comfort infine con il crossover, quasi a livello di jam session, di ‘The distance‘, a ruota libera ma dando l’impressione di non voler strafare. Non si può non voler bene ai Cake, che scaldano i fianchi e il cuore con i loro riff e i loro messaggi tra le righe.