Built To Spill, una serata all’insegna delle sorprese
La fine è a mezzanotte tra il Parco delle Energie e i palazzi di Largo Preneste.
Cominciamo da qui.
Un van a nove posti, portellone posteriore aperto e due uomini.
Uno dei due indossa una maglietta beige, un paio di jeans scuri e una barba importante, ma non eccessiva.
Si dà da fare, l’uomo: scatoloni di cartone chiusi da generose passate di scotch e casse serrate da robuste cerniere passano dalle sue mani all’interno del pulmino.
Si direbbe un roadie, quelli che seguono le band nei tour, uomini per tutte le stagioni e all’occorrenza adatti a qualsiasi compito, ma così è solo in parte.
Perché quell’uomo risponde al nome di Doug Martsch, cervello, cuore e a questo punto anche muscoli dei Built to Spill, che guida fin dal debutto del 1992, mantenendo sempre la barra del timone dritta anche quando intorno a sé cambiavano gli altri componenti.
Va di fretta Doug, è veloce nel caricare gli scatoloni con il merchandising e i flight case con le strumentazioni.
L’esibizione al Largo Venue di Roma è terminata da quasi un’ora e i Built to Spill devono partire insieme a The French Tips, la band che ha aperto la serata.
I ritmi serrati di un tour e la conseguente stanchezza post live non intaccano la sua disponibilità verso chi lo avvicina per saluti, complimenti, gli immancabili selfie di rito.
Dulcis in fundo il suo apprezzamento per la mia maglietta dei Sonic Youth.
Dieci minuti prima avevo incontrato Melanie Radford e Teresa Esguerra, rispettivamente bassista e batterista dei Built to Spill durante i concerti del 2023 in Usa e in Europa.
Nel vecchio continente da una settimana, il tour ha già toccato Olanda, Belgio, Svizzera.
Dopo la data romana mi avevano detto che avrebbero suonato a Milano e da lì al Primavera di Barcellona e in altre quattordici nazioni europee.
Io avevo replicato: «A Milano ci andate in aereo o in treno?», a conferma che quando si ha la stoffa, bastano anche dieci secondi per fare una domanda del cazzo.
Ma la disponibilità, la simpatia e il senso dell’umorismo delle due musiciste sono pari al loro talento musicale e con un sorriso mi avevano rivelato la loro destinazione notturna: un hotel da qualche parte tra Toscana e Umbria, «and so tomorrow morning we will already be on the road to Milan».
Apprezzo l’organizzazione e mi congratulo.
Niente male davvero.
Tre ore prima la serata si era aperta con due sorprese.
La prima fortunatamente sta diventando consuetudine: godersi grandi band anche nelle aperture, stasera è il turno di The French Tips.
Band al femminile, color rosa iracondo.
Nella miglior tradizione delle ‘rriot girls, il trio dell’Idaho, dà vita a una miscela esplosiva di punk, frammisto a dance, psichedelia oscura e echi surf.
La chitarra lancinante, strappata di Rachel Couch, che si espande galleggiando su un mare di delay, ed è sostenuta dalle martellate di basso di Ivy Merrell, e dalla batteria di Angela Heileson, un rullo compressore.
Le ragazze si alternano alla voce e danno tutto senza risparmiarsi.
Essenziali sul palco, lasciano che sia la loro musica a essere protagonista, pochi ammiccamenti e poche concessioni a look o immagine.
Sono catturati dalla loro bravura anche i fotografi nel sottopalco.
Tanto incalzante la loro musica, quanto gentili e delicate nel ringraziare il pubblico.
Non si può parlare di precisione tecnica assoluta, ma la musica che fanno è figa, loro non sono da meno, e realizzo che passerei una serata con loro a bere margarita o anche delle centrifughe di carote e mele.
La seconda sorpresa, stavolta inaspettata è che temevo di ritrovarmi a un ritrovo di reduci, me compreso sia chiaro, e invece l’età media dei presenti è piuttosto bassa.
Sorpresa che porta con sé un pericolo: l’illusione che le ragazze ti riservino le stesse occhiate che lanciano a chi si esibisce sul palco, e che si dissolve quando ti accorgi come ti guardano davvero.
E poi il set dei Built to Spill, che parte piano e dolcemente con ‘Kicked in the Sun‘, da “Perfect from Now On” del 1997, ballad che rivela, se ce ne fosse bisogno, il gusto e la ricercatezza delle linee melodiche della band.
Filo conduttore del live è l’eclettismo compositivo: si passa da brani gioiosamente sghembi con sapore pop come ‘Center of the Universe‘ alle atmosfere indie rock ’80 e ‘90 di ‘Living Zoo‘, testimonianza del dichiarato amore e dell’ispirazione di Doug Martsch per le armonie e le sonorità chitarristiche stile Dinosaur Jr.
La chitarra spadroneggia con suoni solo appena un filo più smussati e liquidi rispetto al muro sonoro spaccatimpani dei Marshall di J Mascis, che possono improvvisamente portarti altrove.
È il caso di ‘Gonna Loose‘, che parte con un potente riff di Stratocaster, sostenuta dalla macchina ritmica di basso e batteria, per poi fermarsi fluttuante a mezz’aria in un gioco di vuoti e spazi più ampi, dove appoggiarsi come su un cuscino d’aria sulla voce di Martsch, morbida e sussurrata quasi come una ninna nanna.
Potrebbe essere è una mia allucinazione, qualcosa che mi riporta ai mondi sonori del Bowie dei primi anni ’70.
Tutto questo mentre accanto a me una ragazza poco più che ventenne, racconta di come a 15 anni le abbiano cambiato l’adolescenza e sparsi qua e là nella sala perdo il conto dei «Doug, I love you» che si alzano tra il pubblico.
E tra una dichiarazione d’amore e la successiva, Martsch regala perle come ‘Tomorrow‘, viaggio multiforme e multicolore, in cui l’incedere martellante di basso e batteria accompagna ossessivamente la chitarra e la voce in una cavalcata lisergica senza confini spaziali e temporali, o come ‘Spiderweb‘, in cui, con un caratteristico arpeggio e un solo finale tanto distorto quanto curato nelle scelte melodiche e armoniche, tornano a far capolino i Dinosaur Jr di “Without a Sound” e in cui il talento musicale di Melanie Radford e Teresa Esguerra, mi conquista una volta per tutte.
Il live è in crescendo di tensione e coinvolgimento, e come per ogni band culto, arrivano le richieste delle canzoni da parte della sala.
Arriva ‘Reasons‘, splendida ballad elettrica, brano datato 1994, riproposto spesso durante questo ultimo tour, cantato da buona parte degli spettatori insieme a Doug Martsch.
E via a seguire alternando melodie malinconiche e decadenti in maggiore che si sovrappongono a momenti più tirati, movimentati e viscerali.
Apprezzatissima dal sottoscritto è ‘Randy Described Eternity‘, tra dissolvenze e vapori psichedelici, la voce di Doug che dopo un’ora e mezza inizia a ondeggiare, una lunga coda strumentale con basso ostinato e ipnotico, reminiscenza dei Porno for Pyros o dei Jane’s Addiction del lato B di “Ritual de Lo Habitual” (si ascolti ‘Then She Did‘).
Il bis finale è la chiusura fulmicotone di ‘Goin’ Against Your Mind‘, punk puro, il suono di chitarra dei Police degli esordi insieme alla cattiveria dei Dead Kennedys.
Tiratissima, basso a inarrestabile e batteria che picchia come deve essere.
Il pezzo chiamerebbe una pogata come Dio comanda, ma i ragazzi si limitano a ballare normalmente. Forse noi “vecchi” abbiamo ancora qualcosa da insegnare alla loro età, o, più verosimilmente, credo facciano molto più sesso di noi quando avevamo la loro età.
A parte quest’ultimo pensiero, esco dalla sala sollevato e confortato.
Nonostante i numerosi de profundis che talvolta si leggono, il rock ha mantenuto identità, matrice sotterranea, e gode di buona salute.
Finché ci sarà una ragazza o un ragazzo incazzato il giusto, in una stanza di appartamento di un quartiere periferico, anche se in via di gentrificazione, una chitarra elettrica, un pedale overdrive o distortion, ci sarà spazio per l’immediatezza dell’esperienza musicale, la creatività e la voglia di ricercare, scoprire e sperimentare novità altre rispetto a quelle spinte dai canali mainstream.
Se andrà ai concerti in quanto fan della band, perché ha il locale vicino casa, per gusto della scoperta, o perché si sia rotto il cazzo di guardare serie tv, è irrilevante.
Finché questo accadrà, ci saranno uno, dieci, mille Doug Martsch che avranno da raccontare alle generazioni, si permetteranno il lusso di portarsi sul palco due eccelse musiciste con la metà dei loro anni e incontreranno i loro fan mentre a fine concerto staranno caricando il van, per partire subito dopo con la loro band verso la prossima data del tour.
Io invece potrò confondermi tra il pubblico e passare inosservato, salvo poi a fine serata andare a cercare i musicisti per guardar loro negli occhi, sorridere e battermi il cuore davanti a loro.
Basta solo questo.