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Turn ON Music

Bud Spencer Blues Explosion, l’esplosione di una supernova

Mi piace raccontare partendo da lontano. Chi passa di qui, per caso, per volontà o per masochismo se ne sarà accorto.
È una sfida con me stesso, partire da qualcosa che non c’entra niente, che uno pensa «ma questo che sta a di’?» e poi invece farcelo entrare, con una colpo da fare invidia al campione del mondo di Tetris.
A volte non devo pensarci, pensieri e parole vanno da sole; in altri casi disegno uno scenario di base e un percorso ipotetico, che inizio a seguire o mollare a metà strada.
In altri ancora, come stasera, è tutto programmato nei dettagli.
Ma quello che sto vedendo sul palco del Monk, durante il live dei Bud Spencer Blues ExplosionAdriano Viterbini alle chitarre, Cesare Petulicchio batteria e percussioni – è una passata di cancellino sulla lavagna delle nostre elementari, le tre dita che premono ctrl+alt+canc e resettano il mio sistema operativo

Allora salta tutto ed eccomi a Genzano di Roma, cittadina dei Castelli Romani di circa 22.000 abitanti. Affaccia sul versante sudoccidentale del cratere del lago di Nemi.
Nel tardo medioevo sotto il dominio della famiglia nobiliare dei Colonna, fu ceduta nel 1428 ai Cesarini che ne mantennero il controllo fino al 1868.
È famosa nel circondario per il pane e nel mondo per la sua Infiorata, l’allestimento di un tappeto floreale in occasione della festa del Corpus Domini, che qui si tiene – guerre e pandemie permettendo – dal 1778. Il tappeto floreale misura circa 1890 m² e per la sua composizione occorrono circa 500 quintali di petali di fiori.
Si dice che anche Napoleone sia rimasto estasiato dalla bellezza della festa.
A Genzano, nel 2001, fece la sua apparizione Paul Mc Cartney, in occasione della proiezione di un film di animazione le cui musiche erano state curate da sua moglie Linda.

Il cognome Cesaroni, erroneamente considerato tipicamente romano, è uno dei più diffusi nella cittadina laziale.
Qui riposa Simonetta, vittima e drammatica protagonista di uno dei casi di cronaca più discussi della storia della Repubblica. È qui che per ventotto anni consecutivi – dal 1969 al 1997 – è stato eletto con percentuali plebiscitarie Gino Cesaroni, morto quando era ancora in carica.
È qui che da diversi anni Luca Cesaroni ha aperto Cloe Guitars, laboratorio artigianale di liuteria che in breve tempo si è imposta tra gli addetti ai lavori come uno dei più quotati a livello nazionale. E mentre leggo la scritta “Cloe” sulla paletta di una chitarra che Adriano Viterbini sta suonando al cospetto di Dio, decido che devo assolutamente andare a trovare chi costruisce le chitarre e contribuisce a creare i suoni che sto ascoltando ora.

«È molto stimolante lavorare con Adriano, lui è uno sperimentatore. Ti chiede sempre di far cose nuove e particolari. Ha sempre le idee chiare, non tanto sullo strumento e sui dettagli tecnici, ma sul suono che vuole ottenere. Viene qui e mi dice: “vorrei un pickup che suoni come un Dearmond del ‘41”, a quel punto io poi glielo costruisco ad hoc. Poi il resto lo fa l’amicizia di una vita. Eravamo poco più che ragazzini e suonavamo in tour con Marco Conidi. È una delle persone più umili e gentili che io conosca nell’ambiente musicale. Credo che, oltre alla sua bravura come musicista, sia una delle ragioni principali del suo successo, in Italia e all’estero. Si pone sempre al servizio della canzone che sta suonando. Al servizio della musica e mai di sé stesso»
Luca Cesaroni

Se disponessi di macchina del tempo, saprei fin da ora che sarebbero queste le parole che raccoglierò domani da Luca. Mentre sta effettuando una regolazione al centesimo di millimetro dell’intonazione di una chitarra che presenta problemi sul “mi basso”, mi racconta che Adriano ama andare a caccia di vecchi amplificatori a valvole e che poi suo padre, appassionato di elettronica, provvede a modificare in base alle sue richieste. Sono due le chitarre Cloe che Adriano utilizza di più: una Coodercaster celeste, derivazione Strato con paletta Telecaster, niente tremolo, pick up di steel guitar al ponte, con le corde che lo attraversano, e goldfoil al manico.
La seconda è la chitarra che sta imbracciando ora a pochi metri da me; corpo simil Stratocaster, priva di pick up al manico e svuotata all’interno, per sfruttarne la naturale risonanza. Ma soprattutto fretless, senza tasti.

Assisto a un concerto dei Bud Spencer Blues Explosion per la quarta volta.
L’ultima volta è stata cinque anni e mezzo fa, in diretta dalla sala B di Via Asiago per Radiodue Live. Stasera l’occasione mi è fornita dal tour di presentazione del loro ultimo lavoro, “Next Big Niente”, uscito per La Tempesta Dischi di Davide Toffolo. Per quanto conoscessi le capacità, l’energia, il tiro travolgente dei due, non ero pronto per quello che sta accadendo davanti a me. Ad aprire sono i Bento, duo elettroacustico di Brindisi. Elettronica sostenuta da una potente batteria e da sequenze di basso.
Suoni curati, morbidi e potenti insieme.
Sono interessanti e decido seduta stante di seguirli su Instagram: non succede con tutti.
Non succede quasi mai.

Bento

Pochi minuti dopo arrivano Adriano e Cesare, con il loro biglietto da visita: la versione riveduta e corretta di ‘Hey Boy, Hey Girl’ dei Chemical Brothers.
Visual con immagini di cascate a richiamare la copertina del disco di fresca uscita, sotto un pulsare costante di luci rosse. Non provo a contare i bpm, né a cercare di seguire ritmi e linee melodiche; anche il demonio si spaventerebbe davanti a quello che i due sul palco stanno tirando giù. La voce passa dentro una sequenza infinita di effetti, probabilmente harmonizer e pitch shifter, forse anche dentro un fuzz. Ma prendete tutto con le molle. Le pedal board davanti alla postazione di Adriano Viterbini hanno la dimensione di astronavi, le foto della gallery a corredo di queste parole sono eloquenti. Il finale mette insieme Hendrix e Page.
Giocattoli’ si rivela con un fraseggio sul bordo rullante prima dell’irrompere della potenza sonora di cui sono capaci. La voce doppia la chitarra, le rullate sono onde telluriche che attraversano la sala rimbalzando impazzite sulle pareti. Suonano in due, ma sembrano una big band per la pienezza e la potenza del suono.
La chiusura del brano è in tre quarti, con un bottleneck, appendice corporea, a svisare fraseggi che strapperebbero meraviglia anche al Jimmy Page di ‘Nobody’s Fault But Mine‘.

Bud Spencer Blues Explosion

Divampa il concerto. Adriano e Cesare si guardano, si compenetrano, si fondono e diventano suono; un unico suono, un big bang che genera un universo parallelo, l’esplosione di una supernova. Nuclei di idrogeno sonoro che nascono nel cuore delle stelle e si fondono a temperature di milioni di gradi. Suoni di chitarra così distorti (i “fuzz” fanno la parte del leone nel setup dei Bud Spencer Blues Explosion) da risultare, per paradosso, puliti e definiti. Loop, riverberi; voce è strumento tra gli strumenti, passata tra saturazioni e pitch. Perdo la distinzione tra un pezzo e l’altro, felicemente incosciente in un viaggio nelle spire del suono della band mentre vedo navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e raggi B balenare vicino alle porte di Tannhäuser. Ascolto, sperimentazione, ricerca. I BSBE si mettono al servizio della musica con l’umiltà che consente loro di coinvolgere il pubblico. In alcuni momenti – vedi il brano del bis – diventano quasi avanguardia. Improvvisazione si perde in mille rivoli di un delta di note per poi risalire il corso del fiume fino alla sorgente, in una circolarità uroborica, autorigenerante e tendente alla perfezione.

Rock allo stato puro, senza sconti. Tecnica che non diventa mai sfoggio di abilità o ricerca del numero ad effetto. L’improvvisazione è il filo conduttore di tutto il set e all’interno dei singoli pezzi accade tutto. Tradizionali blues e riffoni rock sui quali entrano, senza preavviso, pedali polifonici che portano suoni di hammond o di sax e che lasciano spazio a indiavolati finali boogie. In altri momenti le atmosfere diventano quelle del Robert Fripp di “Red”, per poi terminare incendiate dalla whammy bar.
Adriano Viterbini ha un’orchestra intera tra le mani e l’espansione delle possibilità timbriche della chitarra portate all’estremo, mi rimanda dei flash di Adrian Belew. Cesare si concede fraseggi sull’hang drum. Brani che sembrano avere tessiture quasi trip hop in cui improvvisamente deflagrano chitarre che contengono le anime di Nirvana, Soundgarden, Dream Theater, i Jane’s Addiction di “Three Days” ed Hendrix fuse in un unico suono.
Cinquanta anni di rock and roll condensati in un’ora e quaranta minuti di concerto.
Senza sconti, senza fronzoli, senza atteggiamenti patinati riescono nella missione per cui sono scesi tra noi. Usare la musica come combustibile da versare sul mondo, e incendiarlo.

Roma, 21 dicembre 2023

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© Giulio Paravani

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