Blackberry Smoke, Georgia on my mind
Per chi ama la musica, partecipare ad un concerto è un evento dalla valenza che va al di là del mero aspetto ludico.
È immergerti in quello che per qualche ora diventa il tuo habitat naturale, è condivisione con chi ti sta attorno, è l’occasione per incontrare vecchi amici e conoscerne di nuovi. Ma è soprattutto una sarabanda di sensazioni. Non importa che tu sia in un piccolo club di periferia o in una grande arena, sentirsi smuovere dentro dalle vibrazioni della musica che arriva dagli amplificatori è una di quelle sensazioni a cui difficilmente si riesce a rinunciare. Tutto questo lo vivi grazie a chi sul palco ci sale per suonare, ma anche a chi su quel palco ce li fa salire – gli organizzatori. Che, nel bene o nel male (credo che tutti noi potremmo raccontare di qualche concerto-incubo a cui abbiamo assistito), lavorano affinché quell’evento tu lo possa vivere. A volte facendotelo pagare anche più del dovuto, ma questa è tutta un’altra storia.
Di organizzatori ne ho conosciuti tanti, ognuno con le sue peculiarità, i propri limiti, i propri aspetti positivi e negativi. Tra i tanti, permettetemi di esprimere apprezzamento per uno di loro in particolare: Claudio Trotta, che con la sua Barley Arts non manca mai di portare dalle nostre parti artisti di caratura superiore e poco avvezzi ai palchi nostrani. Per intenderci, gente come Bob Weir, Tedeschi Trucks Band o la meravigliosa Dark Star Orchestra per citarne giusto tre. Spesso sfidando il rischio concreto che il riscontro di pubblico non sia all’altezza della situazione. Fortunatamente non è il caso di questa serata che pur con anno e poco più di ritardo, saluta il ritorno in Italia di Charlie Starr e dei suoi Blackberry Smoke con un Alcatraz al limite del sold-out.
In apertura avrebbero dovuto suonare i country rockers Steel Woods, che onestamente avrei visto molto volentieri, ed invece ci troviamo la (a me) sconosciuta Read Southall Band, capitanata, guarda un po’, dal front-man Read Southall. Radici ben piantate in Oklahoma, la formazione arriva da Stillwater, praticamente la capitale di quel genere che viene definito Red Dirt, dal tipico colore del terreno locale. Una definizione che dirà poco ai più, diciamo che lì dentro ci entra un po’ tutto lo spettro del rock americano, dal country all’alternative passando per il folk, il blues e l’hard rock. Le sonorità del quintetto si muovono proprio su queste coordinate, in un melange che trova la sua migliore espressione proprio sul palco, con i musicisti liberi di jammare su quella manciata di brani che lo slot di supporter gli ha permesso di eseguire, provenienti prevalentemente dal nuovo album “For The Birds” (spettacolare la conclusiva ‘DLTGYD’ e dal precedente “Borrowed Time”, con la bellissima ‘Don’t Tell Me’. Dando per scontata la buona prova del leader Read Southall, riserverei una nota di merito per i due chitarristi – prestazione notevole la loro. Anche nella scelta dei gruppi spalla, ancora una volta il buon Trotta non delude.
L’attesa per la performance dei Blackberry Smoke è palpabile: in un parterre decisamente affollato ed eterogeneo, fanno la loro comparsa un buon numero di cappelli texani ed iniziano timidamente a sventolare alcune bandiere confederate. D’altronde, gli Smoke arrivano dalla Georgia, da quella Atlanta che ci ha regalato quella meraviglia che sono stati (e continuano ad essere) i Black Crowes, ed in effetti – pur con le debite proporzioni – non risulta difficile individuare in loro qualche punto di contatto con la band dei fratelli Robinson. Tra l’altro lo stesso Starr ha suonato proprio con i Crowes in alcune date del tour americano, quando il buon Isaiah Mitchell non era disponibile a causa del concomitante tour degli Earthless.
Anche il sottoscritto attendeva con impazienza questa data dei Blackberry, la cui ultima apparizione milanese risaliva al lontano 2017, quando in tour promuovevano “Like An Arrow”. Nel mezzo, una pandemia e ben due album, di cui l’ultimo “You Hear Georgia”, sta quasi per compiere il secondo anno di vita. Tanti buoni motivi quindi per rivederli on stage, e saggiare finalmente dal vivo il nuovo materiale. Perché la vera essenza dei Blackberry Smoke non risiede nella forza degli album o dei singoli brani, ma nell’impatto della loro performance live, che dona maggior spessore alle composizioni e ci permette di ignorare quanto di derivativo ne viene fuori spesso e volentieri. Che sappiano scrivere le canzoni è fuori di dubbio, ma è altrettanto vero che in esse ci troviamo praticamente l’intero scibile del rock americano di matrice sudista, dalla A alla Z… praticamente dagli Allman Brothers fino ai ZZ Top.
Una volta in scena, non possiamo renderci conto di quanto l’intero concept dei Blackberry Smoke sia racchiuso nella figura del suo leader. Charlie Starr – che degli Smoke è il principale autore ed il frontman – è stella di nome e di fatto. Brilla di luce propria e inevitabilmente finisce per mettere in ombra il resto della formazione, che suona alla grande ma dal punto di vista visivo, con forse la sola eccezione di Paul Jackson, rimane in secondo piano in un felice anonimato dal quale non pare intenzionato ad uscire. Le due ore di concerto filano via spedite con una sequenza di brani (una ventina in totale) praticamente continua. L’interazione col pubblico è ridotta ai minimi termini, e limitata per lo più a poche parole di circostanza. Starr preferisce esprimersi con la sua chitarra e la sua voce, e lo fa talmente bene che quasi quasi vien da ringraziarlo per non essersi dilungato in inutili chiacchiere ed aver lasciato parlare la musica.
Nella setlist trovano spazio parecchi brani dal già citato ultimo album “You Hear Georgia”, con doverose menzioni per ‘Old Scarecrow’ dedicata a Gary Rossington, la cui recentissima scomparsa sancisce la fine della leggendaria band di Jacksonville (era l’ultimo Skynyrd ancora in vita), per quel gioiellino blues di ‘All Rise Again’ dedicata al ‘mulo’ Warren Haynes che ne è anche co-autore, e per quella ‘Hey Delilah’ che non può non ricordare i Corvi Neri di Atlanta. Rappresentatissimo anche “The Whipporwil”, il mio preferito tra i loro album. La title-track è praticamente la ‘Freebird’ dei Blackberry Smoke, ma come non citare brani di impatto assoluto come ‘Pretty Little Lie’ e ‘One Horse Town’ o la struggente ‘Ain’t Got The Blues’? Rimane il tempo per il consueto encore, che infila in rapida sequenza ‘Flash And Bone’ e ‘Ain’t Much Left Of Me’. Anche di noi è rimasto poco dopo questo sanguigno concerto, offerto da una band poco discutibile per quello che mostrano quando sono sul palco e che si dimostra ancora in crescita, alla quale però manca ancora un po’ di polvere sotto le scarpe e quel tanto di originalità e varietà in più che ne potrebbe innalzare esponenzialmente l’impatto compositivo.