Black Label Society live a Milano: arriva la Wylde-mania
Sin dai primi momenti in cui si arriva all’Alcatraz di Milano la sera del 16 marzo, si intuisce che la venuta di Zakk Wylde e compagni è in realtà un’adunata di fedeli che rispondono al sacro richiamo del mastodontico chitarrista.
Anche ben oltre l’orario di apertura dei cancelli la coda di persone in attesa per entrare era lunga qualche centinaio di metri, arrivando a coprire tre lati del locale meneghino.
È stata tanta l’attesa prima di rivedere il guitar hero dalle nordiche sembianze, scagliare valanghe di note e riff sul pubblico.
Nonostante lo scorso anno Zakk Wylde si sia esibito al Teatro Arcimboldi di Milano (luogo che ha esaltato i suoni ma costretto i fans in un ambiente inusuale), con questa serata all’Alcatraz è tornata anche l’opportunità di lasciarsi trasportare a briglie sciolte.
Ad aprire la serata ci ha pensato il gruppo stooner/doom Monolord: incolpevoli, non particolarmente seguiti, non hanno lasciato traccia del loro passaggio nei cuori già rivolti all’attesa spasmodica del main event.
Durante l’attesa dei Black Label Society si sente l’aria si fa elettrica.
È l’occasione con la quale si rincontrano compagni di concerti di ogni età, soprattutto orfani di un modo di intendere il rock ed il metal che purtroppo sta sempre più lasciando il posto alle nuove tendenze.
Un metal fatto di intensità, sudore, partecipazione e anche di attitudine: a volte l’atteggiamento di Mr. Wylde è persino troppo sopra le righe tanto da chiedersi se in realtà ci sia o ci faccia.
Ma uno come Zakk Wylde lo si ama al punto che, in caso, ci facciamo anche noi. Poco importa infatti se ci sono stati grossi problemi tecnici durante la serata (come chitarre acustiche che non si sono sentite e basi di intro di basso): nonostante tutto è Zakk con i suoi Black Label Society.
Usando la sabbatiana ‘War Pig‘ come intro, la folla si scatena anche con il telo dei BLS ancora appeso a coprire i musicisti: quando cade, Zakk e la band hanno già cominciato a suonare ‘Genocide Junkies‘.
L’intensità è palpabile, tanto che la band sfodera subito un maglio di sei canzoni prima di poter tirare il fiato.
Dal palco, intanto, due occhi azzurri cercano lo spirito dentro ogni singolo componente del pubblico: «Quando rimarremo in pochi sentiremo una attrazione per una terra lontana dove combatteremo per avere la nostra ricompensa» come recitato in “Highlander – l’ultimo immortale“.
E lui è il Kurgan che ci vuole dominare con la sua chitarra.
Non fa sconti, non si tira indietro, non teme la folla: anche lui è alla ricerca della ricompensa.
E lo fa scendendo tra il pubblico dalla parte sinistra del palco: suonando, si fa strada in mezzo alla platea a suon di note.
Alieno a tutti passa in mezzo a quasi 3.000 persone per arrivare dalla parte opposta e salire su di una struttura sospesa sopra il bar – per godere del suo esercito, che non smette di pogare, saltare e seguirlo.
Quando si siede al piano e intona ‘In this river‘ con alle spalle due teli raffiguranti il magnifico Dimebag Darrell che imbraccia la chitarra, anche il cuore del più arcigno ed ignorante metallaro si intenerisce e fa sue le lacrime della perdita di un compagno in grado di far vibrare il pubblico con la sua sei corde.
Poche sezioni acustiche o perdite di ritmo, il concerto scorre come un treno sulla gente che non smette di pogare e osannare il biondo chitarrista che fa sfoggio anche della sua esperienza come leader.
Non servono pause, rientri o bis per i 100 minuti di sudore e anche qualche lacrima: la nostra Reminiscenza è completa e soddisfatti si aspetta la prossima chiamata.