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Benjamin Clementine, poeta enigmatico dalla voce cangiante

Una presenza quieta, enigmatica e potente, quella di Benjamin Clementine sul palco.
Nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica a Roma, l’artista inglese ha dominato la scena col suo pianoforte a coda, occasionalmente accompagnato da un quintetto di archi.

La sua musica è intrisa di malinconia, una vena sofferta che sembra venire dal profondo.
Una ricerca veloce online, infatti, conferma che nel vissuto di Clementine, classe 1988, ci sono stati momenti difficili, prima di sfondare nel mondo dello spettacolo.

Benjamin Clementine

Fin dal primo apparire sul palco, Benjamin Clementine è un enigma: un fisico muscoloso esaltato da abiti dal taglio femminile (una candida blusa fluttuante con ruches al collo, infilata in pantaloni neri, ampi e svasati), che però non hanno nulla di femmineo indosso al cantante.
Il bowl cut di ricci che addolcisce un viso dai tratti marcati, l’atteggiamento raccolto e silenzioso, il momento di meditazione a occhi chiusi, in piedi (nudi)  di fronte al pianoforte prima di sedersi su uno sgabello insolitamente alto e cominciare a suonare, rimandando il saluto al pubblico alla prima pausa, dopo un paio di canzoni: ogni gesto misurato, ogni espressione assorta, ogni virtuosismo delle dita che volano sui tasti e della voce che cambia personalità a ogni nuova traccia, sono sottilmente, ma inequivocabilmente, teatrali. 

Clementine non ha bisogno di strafare: il tono caldo e avvolgente della voce, la maestria al pianoforte, il lirismo dei suoi testi e un senso stilistico eclettico e ricco di echi musicali che affondano nella storia, rendono la sua performance profonda e memorabile.
Bastano pochi fasci di luce, quasi sempre bianca, a isolare la figura dell’artista nel buio del palco, e il resto è riempito dalla musica.

Colpisce, in particolare, la qualità cangiante della sua voce: è potente, a volte stentorea e sferzante come quella di Nina Simone, altrove è un baritono incalzante come John Legend, in altre canzoni ancora (‘Adios‘) si innalza verso il falsetto, quasi che di fronte a noi ci fosse una cantante lirica, e poco dopo quella voce sfocia in un tono possente da tenore. 

Dalle ballad più malinconiche ai pezzi appassionati, si percepisce sempre che Clementine sta cantando tutta una vita – a volte come una favola triste, a volte come un canto rabbioso e disperato.
Non c’è nulla di lamentoso, però: proprio come nelle versioni registrate, anche la musica dal vivo è sempre percorsa da una corrente appassionata, che rende il concerto un’esperienza travolgente, a tratti quasi catartica, sempre estremamente poetica.

A dispetto del suo contegno misterioso, però, si è divertito a cogliere di sorpresa il pubblico inframmezzando parole italiane ai versi delle sue canzoni, o facendo battute sarcastiche sull’incessante frinire delle cicale, e soprattutto non ci si aspettava che fosse serio quando ha annunciato che avremmo cantato 50 volte un verso di ‘Genesis‘ («We are trapped in free»).
Ma l’ha fatto, e ci ha condotti fino alla fine.
Ha persino tentato di dirigere nuovamente un coro (pare che succeda spesso, di questi tempi, andando in Cavea) sulle note di ‘Condolences‘, sebbene forse non sia andata come sperava.

Verdetto?
Anche prima di tornare a casa, ci si mette a seguire tutti i social, per non perdersi l’occasione di rivedere Benjamin Clementine dal vivo di nuovo, il prima possibile.

Roma, 02/08/2023

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© Stefano Panaro

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