Baustelle, se solo fossimo un paese diverso
A volte si affaccia alle finestre del castello della mia mente l’idea che siamo la risultante di una somma di imprinting.
Il primo abbraccio che ci ha avvolto, il primo giorno di scuola, il primo rigore sbagliato, il primo regalo ricevuto.
Le direzioni della nostra vita fanno giravolte e si definiscono spesso per semplice capriccio del caso.
La prima parola tedesca ascoltata.
Mi dichiaro: ho un pregiudizio positivo nei confronti dei Baustelle.
Raggiungere il luogo del concerto può diventare il concerto stesso se sei a Roma, stai cercando di arrivare all’Auditorium, all’Olimpico si esibisce Ultimo (qui le foto del concerto, ndr) e un incidente a Corso Francia ti blocca già da via Tiburtina.
Tra i calcoli algoritmici, umane euristiche creative, manovre tutte capitoline al volante, parcheggio nel mezzo di quel monumento alla decadenza che è il Villaggio Olimpico. Un’ora abbondante di anticipo, ho tempo per respirare e godermi la rassicurante birra pre-concerto.
Invece no, troppo caldo anche per una birra; acqua naturale è vero rock and roll.
Ne tracanno mezzo litro in un minuto, modalità cammello nel deserto.
Altri sessanta secondi e sono nel parterre.
L’allestimento del palco ha stile, fascino vintage e retrò.
Sullo sfondo una grande tenda rossa, teatrale.
In alto a destra, in corsivo il nome della band in caratteri che diverrà luminoso al momento opportuno.
Piazzati su due file gli strumenti: in prima fila, a sinistra, sulla cassa della batteria campeggia il volto stilizzato di Elvis Presley, diretto riferimento al nome recente lavoro della band.
A destra la postazione di Rachele Bastrenghi con tastiere e piano elettrico, al centro le chitarre di Claudio Brasini e Francesco Bianconi.
Rialzati, dietro, disposti in un ideale semicerchio, tre dei quattro musicisti che hanno collaborato alle registrazioni di “Elivs” e che accompagnano i Baustelle in questo tour estivo 2023: Milo Scaglioni al basso, Alberto Bazzoli all’Hammond, tastiere e minimoog, Lorenzo Fornabaio alle chitarre.
La quarta si merita l’onore della prima fila: Giulia Formica, o se preferite Julia Ant, e suona la batteria.
Ma il colpo d’occhio, almeno a palco ancora vuoto, me lo catturano i dodici fari posti tra musicisti e tenda rossa.
Sostenuti da aste verticali che partono dalla base del palco, ricordano in modo evidente i microfoni a carbone sul genere Dralowid/Werk, fabbricati negli anni Trenta e Quaranta in Germania.
In linea con il gusto vintage dell’allestimento scenico, fungono da ulteriore richiamo all’elemento germanofono del nome del gruppo.
Se sia voluto o meno non lo so, ma l’accostamento mi parte automatico.
Non so nemmeno se i microfoni siano quelli, ma sono i più simili che abbia trovato setacciando il web, perché qualora non abbiate partecipato al live possiate averne idea. L’idea dei fari potenti e bassi dietro i musicisti era presente anche nel tour del 2017, ma, forse per il contrasto con il rosso della tenda il colpo d’occhio è di sicuro effetto.
Mi piazzo davanti al mixer, appoggiato alla transenna e rialzato rispetto al resto del parterre.
Ventuno e ventidue minuti, si parte.
La voglia della band di abbandonare l’elettronica, per recuperare suoni essenziali e analogici, che riportino alle origini del rock and roll è evidente già dall’outfit e dal taglio di capelli dei musicisti che li accompagnano.
Già dall’intro i suoni sono dichiaratamente anni ’60 e ’70, con l’hammond che farà la parte del leone per gran parte del concerto.
Entra Claudio Brasini e poi, insieme, Rachele Bastrenghi e Francesco Bianconi.
Si inserisce il cantato di ‘Andiamo Ai Rave‘, pezzo che apre il concerto e il loro ultimo disco.
Bianconi è iconograficamente messianico, ma ha il dono dell’ironia tanto sottile e impalpabile, quanto profonda e permeante le sue parole.
Rachele, in continua e vulcanica interazione con il pubblico, mostra doti canore che di disco in disco trovano sempre maggior spazio e riconoscimento.
Silenzioso ma onnipresente Claudio Brasini e la sua Gibson Sg, sciolta e libera di sbizzarrirsi in riff, soli e power chords.
Non è un tour promozionale dell’ultimo disco.
I brani tratti da “Elvis” sono solo cinque e prevalentemente concentrati nella prima parte del concerto, penalizzata, almeno per il primo quarto d’ora da un’acustica migliorabile.
È un suono un po’ da Palalottomatica, (i romani sanno di cosa si stia parlando), ovattato e con rimbombo che nasconde sia le chitarre, in particolare durante i soli, che in parte le voci.
Nonostante ciò, è sufficiente l’attacco di ‘La Guerra È Finita‘, dopo un intro di hammond in puro stile sixties, per portare il pubblico della Cavea ad accompagnare, nota per nota, il ritornello cantato da Bianconi.
Avere intorno 5000 persone cantare all’unisono lo stesso pezzo fa risaltare una volta di più la forza melodica dei pezzi della band.
L’acustica migliora e una volta di più le melodie dei Baustelle sono tra le più belle che oggi si possano ascoltare in Italia.
I ritornelli sono aperture improvvise che rivelano infinite possibilità espressive, rafforzano per contrasto l’impatto dei testi, ammorbidendone l’audacia, talvolta le sfrontatezze e le asperità.
E i testi, come sottolinea Bianconi, al tirar delle somme parlano sempre e solo di un argomento.
Introduce così ‘La Nostra Vita‘, racconto di quotidianità di tanti amori.
Arrangiamenti soul a sostenere le strofe ed esplosione melodica nel ritornello cantato insieme da Rachele e Francesco, con provocazione, ironia e gusto dell’iperbole e come nemmeno Wess e Dori Ghezzi (grave pecca non sapere chi siano, giovani provvedere) sarebbero riusciti a fare.
Outro strumentale che richiama la Janis Joplin di ‘Summertime‘ e Giulia alla batteria che canta insieme a Bianconi durante ‘Veronica n.2‘, mi indica il gran livello di empatia e amalgama emotiva tra i musicisti.
Ancora “Sixties” ed hammond in stile Procol Harum in ‘Monumentale‘, mentre Rachele riceve fiori dal pubblico.
Si attraversa l’oceano per arrivare a ‘Los Angeles‘ e spiccate sono le atmosfere soul e rythm and blues.
Poi la prima sorpresa, con Tommaso Paradiso sul palco per cantare ‘L’Amore Indiano‘, scritta a quattro mani insieme a Francesco Bianconi, con una semicitazione di ‘Innamorati a Milano‘ di Memo Remigi, l’ex frontman dei The Giornalisti canterà a due voci anche ‘Le Rane‘, impreziosita nel finale dal solo di Brasini con passaggi e suoni decisamente zeppeliniani.
L’amore per la loro città d’adozione si celebra con ‘Un Romantico a Milano‘ un salto nel passato e un classico della band che continua a fare il suo lavoro: far cantare e ballare tutti. Rachele confonde i brani della scaletta, annunciando il suo brano preferito per poi, al termine de ‘I Provinciali‘, sulla coda folk di armonica e arpeggio di chitarra acustica ammettere di essersi sbagliata.
Chissà che non sia ‘Amanda Lear‘, la fine di un amore proibito, maledetto.
Amore archetipico creatore e distruttore, vizioso e perverso, che a distanza di tempo si rivela essere stato più romantico di quanto non immaginassimo.
Il colpo del KO che non ti aspetti arriva al sedicesimo pezzo in scaletta.
Breve intro di piano elettrico e l’attacco de ‘La Donna Cannone‘ di Francesco De Gregori inumidisce gli occhi di buona parte della Cavea.
La versione è abbastanza fedele all’originale.
Il tocco personale degli artisti si concretizza con una variazione armonica nel ritornello e nel ritardo dell’attacco alla fine dello stesso, cosa che manda adorabilmente fuori tempo i cinquemila della Cavea.
Non c’è tempo per indugiare, si riparte con un potente attacco funky rock per presentare la band e chiudere la prima parte con ‘Love Affair‘, piena, potente, con Bianconi poetico e malinconico, che siede all’hammond durante la coda del pezzo che chiude con fraseggi di minimoog.
I classici del passato protagonisti anche nel bis, ‘Gomma‘ e ‘La Canzone Del Riformatorio‘ direttamente da “Sussidiario Illustrato Della Giovinezza”, loro primo lavoro, acquistano nuovo lustro con arrangiamenti punk e trascinano con la batteria che martella gli ottavi sul timpano.
Finisce in ovazione e con Giulia e Rachele che restano sul palco il più possibile, abbracciate, a godersi il calore del pubblico fino all’ultima stilla di sudore.
Vagabondando qua e là con la mente, riconosco ancora una volta alla band di Montepulciano l’essere autori e portavoce di un pop di alta qualità, curato, raffinato e di forte impatto emotivo, sonoro e testuale.
Una band che più di venti anni a questa parte ha saputo esplorare, ricercare, e recuperare dal passato, creando e mantenendo un linguaggio espressivo personale e riconoscibile.
Se fossimo un paese diverso avremmo un pop diverso, un pubblico diverso, e loro a suonare negli stadi.
E se fossimo un paese diverso, avremmo anche da qualche parte, davanti a un pc nella sua stanzetta, un ragazzo di quindici anni più sereno e forse felice.
Ma anche una splendida canzone in meno.
Quella che stasera chiude il concerto e che non ho menzionato perché non serve vi dica quale sia.