Baronesse e Graveyard: tra sludge, doom, stoner e retro-rock
In veste di co-headliner, Baroness e Graveyard arrivano al Live Music Club
Una serata ‘stonata’ con l’aggiunta dei Pallbearer
Trezzo sull’Adda (MI), 07 Novembre 2024
“Piatto ricco mi ci ficco”, cita un famoso adagio popolare che calza a pennello con il pantagruelico cartellone messo assieme per questa serata di cui saranno protagonisti tre nomi di primissimo piano del panorama doom/sludge/stoner, un piatto davvero ricco in cui ficcarsi davvero volentieri. Trattasi infatti della tappa italiana del tour da co-headliner che affianca i retro-rockers svedesi Graveyard agli alfieri americani dell’alternative sludge, i Baroness. Non poteva mancare anche un gruppo spalla, ruolo affidato per l’occasione ai Pallbearer ed al loro doom malinconico.
La corposità dell’offerta e la presenza di due headliner impongono orari abbastanza inusuali per un concerto di questo genere: chi ha frequentato venue oramai scomparse come il LoFi, tanto per citarne una, ricorderà infatti concerti iniziati in tardissima serata e finiti a notte inoltrata, per la somma gioia di chi come il sottoscritto il giorno dopo doveva presentarsi al lavoro. Ricordo fin troppo bene gli sconsiderati abusi di caffeina, assolutamente indispensabili nel day after per scrollarsi di dosso l’aspetto da morto vivente e darsi quel minimo di contegno necessario per affrontare la giornata lavorativa.
Sfidando il traffico di una A4 tanto per cambiare ingolfata e resa ancora più incasinata dall’ennesimo tamponamento a catena, riesco miracolosamente a raggiungere il Live Club alle 19:00, giusto in tempo per veder salire sul palco i Pallbearer che danno il via alla serata.
Lo ammetto, per questo quartetto di Little Rock, Arkansas nutro profonda ammirazione – mi piace definire il loro sound ‘emo-doom’, per quell’innata capacità di infondere melodia e malinconia nei riff metallici che costellano i loro brani, rendendoli contestualmente tristi ed irresistibilmente affascinanti.
Di loro apprezzo particolarmente il lavoro delle due chitarre di David Holte e Brett Campbell, quest’ultimo protagonista anche nel comparto vocale, che condivide con il bassista Joseph Rowland. Il tempo a loro disposizione non è particolarmente abbondante, il che riduce la setlist ad un paio di brani dal recente “Minds Burn Alive” e al ripescaggio di altrettanti pezzi dalla discografia precedente, tra cui i 10 entusiasmanti minuti di ‘Worlds Apart’, lo splendido brano che apriva il loro secondo album “Foundation Of Burden” con cui si chiude una performance eccellente dal punto di vista strettamente musicale, ma che dal punto di vista dello spettacolo ha regalato davvero poco: a parte qualche scapocciata di Rowland, gli altri tre sono risultato piuttosto statici, non brillando di certo per il dinamismo on stage.
Vista l’ora, anche il pubblico di fronte a loro non era particolarmente numeroso, e questo ha probabilmente contribuito ad aumentare il coefficiente di staticità della performance.
Archiviata la performance dei Pallbearer non resta che attendere quella dei Graveyard, che – senza nulla togliere alle altre due band in cartellone – rappresentano per me il reale motivo per cui partecipare a questa serata.
Ho profondamente amato tutti i loro album, pregni di quell’accattivante mélange di hard-rock seventies, blues e psichedelia, a riprova che a volte per far buona musica non è sempre necessaria l’originalità a tutti i costi, soprattutto se, come nel caso dei Graveyard, sei in grado di forgiare il tuo sound mescolando e bilanciando per bene quanto già è stato fatto in passato, aggiungendo quel pizzico di tuo che può fare la differenza.
Un po’ a sorpresa questa sera il quartetto di Goteborg sfoggia un’inedita formazione a cinque. Il front-man Joakim Nilsson, infatti, non ha ancora del tutto superato la recente operazione alla spalla e deve rinunciare alla chitarra per dedicarsi esclusivamente al microfono, rendendo così necessario l’inserimento temporaneo dell’ex-Witchcraft e attuale chitarrista degli Spiders, John Hoyles.
Trattandosi di un co-headlining tour, sia i Graveyard che i Baroness hanno dovuto ridimensionare un poco il proprio set, settandolo sulla distanza dei 75 minuti circa. 75 minuti in cui però i Graveyard sono riusciti ad infilare grosso modo tutto quanto ci potevamo aspettare da loro. In realtà ci è apparso un po’ trascurato il nuovo disco “Six”, da cui sono stati presentati l’iniziale ‘Twice’, ‘Breath In, Breath Out’ e quel gioiellino di ‘Rampant Fields’, a favore del loro disco-capolavoro del 2011, “Hisingen Blues”, e di “Peace” del 2018: con nove pezzi, ecco bella che approntata la spina dorsale di uno show dall’andamento trascinante ed a tratti irresistibile.
Tra gli highlight dello show, citiamo senza dubbio proprio ‘Hisingen Blues’, ‘Uncomfortably Numb’ e ‘Walk On’, mentre le due bombe ‘’Aint Fit To Live Here’ e ‘The Siren’ sono state (giustamente) risparmiate per il doveroso ed infuocato encore con cui i Graveyard si sono accomiatati dal pubblico del Live Music Club, forti di una performance eccellente che consente loro di aggiudicarsi (oserei dire a mani basse) la palma di vincitori della serata.
L’ora dei Baroness scocca alle 21:45 quando la chitarrista Gina Gleason, il bassista Nick Jost, ed il batterista Sebastian Thomson raggiungono il palco, subito seguiti da John Baizley, che inaugura il concerto con il brano che apre anche il nuovo album “Stone”, il loro primo dal titolo incolore, e sebbene molti ritengono che la band il suo meglio l’abbia dato con “Green And Yellow”. Per il sottoscritto questo ultimo disco rappresenta perfettamente la summa di tutti gli album precedenti, con quell’intrigante mix di alternative, sludge e stoner, ammantato di melodia e percorso da un’appena accennata vena progressiva.
Sul palco gli sguardi per una volta non sono tutti per Baizley, c’è molta curiosità anche e soprattutto per Gina Gleason, oramai perfettamente integrata nel tessuto dei Baroness ma che dal vivo, almeno per me, rappresenta un’assoluta novità. Per niente appariscente, con quel look da maschiaccio che la fanno sembrare tanto ‘one of the boys’, la vedi suonare e cantare come non ci fosse un domani, e ti rendi conto di quanto importante sia diventata ai fini dell’economia della band.
I brani scorrono veloci, per un concerto che inanella una dozzina di brani pescati da tutti e sei gli album fino ad ora pubblicati e che vede il suo culmine con gli ultimi due pezzi, ‘Isak’ e – soprattutto – ‘Take My Bones Away’, salutati dalle bordate di applausi di un pubblico visibilmente appagato, nonostante la brevità del set. La band si farà comunque perdonare, palesandosi tra i fan nel parterre, non appena terminato il concerto.
Si conclude così in bellezza una serata dal sapore davvero particolare, con un bill che potrebbe tranquillamente essere quello di un minifestival, in cui tre band di caratura internazionale hanno dimostrato come, pur nella loro diversità, si possano unire le forze per dar vita ad uno spettacolo intenso, ricco di sfumature ed in grado di soddisfare anche i palati più esigenti.