bar italia, una lunga strada ancora tutta da percorrere
Istruzioni per l’uso: bar italia si scrive in minuscolo.
Non è dato sapere se il nome faccia riferimento a una canzone dei Pulp del 1995, o a un locale di Soho: sappiamo con certezza che c’è del tricolore nella band e si chiama Nina Cristante (fermi là con facili battute, non c’entra nulla con il calciatore).
Romana, professione dichiarata nutrizionista, trasferitasi a Londra da diversi anni.
Qui incontra Samuel Fenton e Jezmi Tarik Fehmi – presumo originario dell’Asia Minore – provenienti da un progetto chiamato Double Virgo – e forma con loro i bar italia.
Escono con il loro primo lavoro, “Quarrel”, in pieno tunnel pandemico.
Nove brani per la durata complessiva di 14 (quattordici, non è un refuso) minuti, con la title track – due minuti e diciannove secondi – a detenere il primato della canzone più lunga.
Un anno dopo tocca a “Bedhead”, che dura il 50% in più del predecessore e arriva a ventuno.
Ascoltandoli penso ad haiku musicali; scarne fino all’osso, minimali, spiazzanti, soprattutto quando terminano senza preavviso e pensi che sia andata giù la tua connessione.
Ogni brano è una microtessera di un mosaico policromatico e a guardarlo da lontano, forse più complesso di quanto sembri.
I lavori sono comunque accolti al meglio dalla critica e da un pubblico di fan che aumenta sempre più.
Arriva puntuale il contratto con la Matador Records – Belle and Sebastian, Butthole Surfers, Interpol, Kim Gordon, Pavement, Queens of the Stone Age, Yo la Tengo – non proprio l’etichetta di “Giggi er Tanica”.
Nel maggio di quest’anno danno alla luce “Tracey Denim”, terzo lavoro in cui esagerano e arrivano ai quarantaquattro minuti di durata.
La produzione affidata a Marta Salogni, ancora Italia, fresca di collaborazioni prestigiose; tra queste l’essere producer e sound engineer dei Depeche Mode di “Memento Mori”.
L’astronave bar italia decolla.
L’album è accolto con i migliori onori dalla stampa di settore e non solo: la loro musica acquista compiutezza, definizione e identità.
Si collocano all’incrocio tra indie rock sperimentale, post-punk, shoegaze e un pizzico di brit pop a sentimento.
Trasvolano l’Atlantico per i primi concerti negli Usa, nove date tra New York e Los Angeles; nemmeno a dirlo, sold out.
Negli anni di sovraesposizione mediatica, scelgono di andare in controtendenza.
Scarsa presenza sui social, interviste inesistenti.
Trenta foto pubblicate sul loro profilo Instagram in tre anni e mezzo, di cui soltanto una minima parte con loro protagonisti.
Meno se ne parla e più se ne parlerà, e fino ad ora sembrano aver avuto ragione.
In pieno vortice creativo annunciano l’uscita “The Twits”, quarto disco, il secondo in cinque mesi, prevista per il 3 novembre 2023, registrato a febbraio in due mesi scarsi in uno studio casalingo.
Il singolo ‘My Little Tony‘ (sarà proprio l’artista tiburtin-sammarinese?) è già in giro sulle piattaforme, con le loro tre voci calde e vaporose che si inseguono sopra un muro di chitarre calde e vellutate che non dovrebbe tradire le aspettative dei fan e di “quelli che se ne intendono”.
Fine delle istruzioni.
Ripartiamo dalle aspettative, stavolta le mie, che non appartengo a nessuna delle categorie di cui sopra.
Piazzate come una scimmia sulla spalla, mi distraggono da dolori di ben altra natura che, mentre sto entrando al Monk, originano dallo stadio Ferraris di Genova dove la difesa della Roma sta dando il meglio di sé.
La sala teatro è piena come accade solo nel caso dei grandi appuntamenti.
Temperatura sul genere “interno pomodorino fantozziano”, le porte laterali sono lasciate aperte ma senza apprezzabili risultati.
L’età media è giovane, giovanissima: ragazze e ragazzi con gusto della scoperta che si ritagliano attivamente una nicchia alternativa al mainstream, che rimpolpano quel 10% di pubblico italiano presente ai festival internazionali e garantiranno il ricambio alla generazione di noi che ci diamo grandi pacche sulle spalle in queste occasioni.
Ma non molliamo e non di rado ci troviamo alla transenna sottopalco.
Di questo pubblico beneficiano inizialmente anche gli Zac, opening band romana, power trio con aggiunta di tastiere.
Pezzi piacevoli, con soluzioni che funzionano e arrangiamenti non scontati.
Cantano in inglese e non mi dispiace, ma un pizzico più di cura nella pronuncia ci starebbe bene.
Sicuramente se fossero in nati in Inghilterra avrebbero avuto sorte migliore.
Sarà per la prossima vita, sicuramente.
Alle 22.50 in punto salgono sul palco i bar italia.
Sono in formazione a cinque elementi: Sam Fenton e Jezmi Tarik Fehmi ai lati con le chitarre, Nina Cristante al centro, in abitino attillato nero portato con eleganza e femminilità.
Dal vivo sono ancor più giovani di quanto sembri nelle poche foto che circolano sul web.
A completare la formazione si aggiungono una bassista e un batterista.
In linea con la scelta del basso profilo comunicativo non si sbracciano in saluti entusiasti.
Jezmi si limita a un «bella Roma!», Nina un «caldino qui»: forse non voleva cadere nello stereotipo della “paisà” che torna a casa, ma mi aspettavo un pizzico di calore e coinvolgimento in più.
Aprono con ‘Nurse!‘, estratto da “Tracey Denim”, che farà la parte del leone con nove brani sui dodici in totale eseguiti.
Atmosfere un po’ Sonic Youth, con tappeti ipnotici di di chitarre ostinate sotto.
Il tempo di ‘Harpee‘, con la sua fine secca e improvvisa, e si guadagna spazio ‘Rage Quit‘, l’unico estratto da “Bedhead”.
Un muro sonoro magmatico e decadente, con la voce di Nina doppiata da Sam.
La fanbase, accalcata e urlante, ancor più di quanto sia la temperatura esterna e tributa loro convinti applausi; la band appare timida.
Così come è partita, prosegue; non si dilunga in ringraziamenti e non interagisce più di tanto.
In ‘Friends‘ funziona l’alternanza delle due voci maschili si passano il testimone e ampliano la gamma cromatica e sonora del brano.
La timbrica di Jezmi può ricordare quella di Robert Smith e il mondo sonoro dei primi Cure.
Il pezzo non è male, ma troncato improvvisamente dopo nemmeno due minuti.
‘Missus Morality‘ con 4 minuti e tredici secondi detiene il record di lunghezza della loro intera discografia, ed è anche il brano che mi rivela definitivamente il principale punto debole della loro esibizione: Nina Cristante.
Sarà elegante, sarà avvenente, sarà “romana daa capitale”, ma ha una voce che sparisce letteralmente dietro gli altri strumenti.
È evidente il divario con le due voci maschili, che hanno personalità definite e diverse tra loro (più carezzevole quella di Sam Fenton, più viscerale e sofferta quella di Jezmi Terik Fehmi, in ogni caso ben amalgamate).
‘My Kiss Era‘ parte con un bel riff di basso e chiude con chitarre potenti; ‘changer‘ è crepuscolare e meriterebbe un ascolto diverso da quello che si può avere in un carnaio con 38 gradi di temperatura.
‘NOCD‘, che chiude la prima parte, è un classico pezzo indie rock, energico e tirato e conferma la qualità della scelta di alternare le voci maschili, laddove invece ‘Skylinny‘ chiude ogni discussione sulla debolezza di quella femminile.
I bar italia hanno talento e sanno scrivere molto bene; tuttavia, mi sorge il dubbio che stia accadendo tutto troppo velocemente e in fretta. La performance live non è all’altezza dei loro dischi in studio, potrebbe essere un classico caso in cui è il lavoro del produttore a sgrezzare il materiale registrato e trasformarlo in un bel disco.
La band è ancora immatura e parecchio acerba nel tenere la scena.
Il tempo che si prendono tra la fine di un pezzo e l’inizio dell’altro è eccessivo e fa un po’ troppo “concerto di band liceale durante l’occupazione” là dove il mestiere, o il talento naturale nel gestire il palc,o può fare la differenza in termini di qualità percepita di tutto il set.
È un peccato, perché le canzoni sono buone ma è necessaria una maggior cura nella loro esecuzione live.
Nel bis, ‘Polly Armour‘, estratta da un Ep uscito lo scorso anno: l’attacco di batteria è troppo veloce e dopo poche battute devono fermarsi per ricominciare.
Jezmi la prende a ridere, i fan anche ma una band non può permettersi svarioni del genere.
Sono fiducioso per natura: i bar italia possono senz’altro crescere a patto che Nina Cristante decida di investire una piccola parte della cifra che sicuramente potrà entrare nelle loro casse in lezioni di canto.
Il resto – la scioltezza, la rapidità nel passare da un pezzo all’altro, la capacità di gestire l’interazione con il pubblico – verrà con il tempo e il mestiere.
E magari, ragazzi belli, insieme al mestiere cerchiamo di inserire qualche brano di più in scaletta, o di allungare qualche outro senza troncarla dopo cento secondi.
Quarantacinque minuti di concerto, bis e pause (lunghe) tra i pezzi compresi, sono un po’ pochi per una band che passerà i prossimi mesi in tour tra Europa e Stati Uniti.
E insomma, per questi motivi “quelli che se ne intendono” all’uscita scuotevano la testa.
Io anche per la Roma naufragata, ma questa è una storia a parte.