Ash, un rimedio all’invecchiamento
Milano, 03 dicembre 2018
Gli Ash che ci si trova di fronte al Legend Club non sono di certo dei ragazzini, lo testimonia la loro pluriennale militanza che parte sin dai primi anni Novanta, ma le aspettative sono assolutamente adolescenziali.
Dal gruppo nordirlandese, fresco di pubblicazione del disco “Islands”, ci si aspetta un incrocio tra leggero indie rock di annate passate e britpop senza grosse pretese, passando in rassegna le loro hit più popolari.
Aprono il concerto gli inglesi Indoor Pets, con un bella vena garage rock, chitarre sbattute e voce mezza gridata. Hanno melodie simpatiche, si dimenano parecchio e padroneggiano il palco da buoni intrattenitori. Probabilmente gli occhialoni neri del cantante, in perfetto stile Rivers Cuomo dei Weezer, ci condizionano un po’, ma ci piace questo atteggiamento grezzo di chi non ci va troppo per il sottile.
L’ingresso in scena degli Ash appare molto sbrigativo, entrano di buon passo e attaccano subito a suonare, un pop riffato presentato con posture ruffiane e atteggiate.
I pezzi storici non tardano ad arrivare, il secondo pezzo è una ‘Kung Fu‘ tirata, ritmata e pulita con una voce carente.
Suonano puliti, se tralasciamo la parte vocale, con un buon incalzare e tinte glitterate, con riff facili ma enfatizzati a uso e consumo del pubblico.
Appaiono belli carichi e coinvolgenti, non brillano per tecnica e accuratezza ma spingono più sull’impatto che sulla forma.
Gli Ash evocano come da copione eterna gioventù, licei che non finiscono mai e atmosfera da anni Novanta perenni. Quando il ritmo si velocizza, gonfiano i suoni e privilegiano la frequenza alla potenza. Questa frenesia fa passare in secondo piano qualche stecca notevole del cantante Tim Wheeler, per poi mollare con passaggi soavi e sentimentali alla ‘Walking barefoot‘, tra giri di chitarra incespicati che puntano dritti al cuore.
Non sono certo dei mostri del rock più grintoso, gli Ash, ma una band che evoca molto bene atmosfere da teenager con un certo piglio.
Alcuni pezzi come la nuova ‘Incoming waves‘ sono eccessivamente mollicci e il pubblico ne approfitta per fare delle commissioni, addirittura il bassista si rintana in un angolo di spalle, ma dimostrano di saper fare anche molto di meglio quando tirano in piedi un bel casino fine a sé stessi.
Inseriscono qualche coretto che rimanda subito alla vena britpop dalle parti dei Supergrass.
Per tenere alta la tensione del finale, Tim Wheeler sfodera anche qualche assolo chiassoso, accompagnato da una voce eternamente puberale sulla voluminosa ‘Buzzkill‘, arrivando infine alla sintesi di quello che sono davvero gli Ash con la mielosa e frizzante ‘Girl from Mars‘ e la squillante ‘Burn baby burn‘.
Rientrano poi sul palco per gli encore ugualmente frettolosi, il blues rock di ‘Did your love burn out?‘ non è troppo travolgente ma il crescendo importante e coinvolgente di ‘Lose control‘ rinvigorisce la chiusura.
Ci portiamo a casa un divertimento leggero ed emotivo, velato di nostalgia ma solo perché siamo tutti ormai diventati un po’ vecchi, che in fondo è quello che eravamo venuti a chiedere agli Ash.