Asaf Avidan, non dimenticate di essere fragili
Ho diversi amici musicisti.
La loro fortuna, stasera, è il ricordarmi della loro esistenza quando entro nella sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma e mi avvicino al palco, attirato dal setup di Asaf Avidan.
Le pedaliere farebbero la felicità dei chitarristi di mezzo mondo, ma non solo.
Sono due: una per la voce e una per le chitarre.
Un trionfo di pedali polifonici, delay, overdrive, emulatori di suono (mellotron, piano elettrico, archi), equalizzatori, booster di segnale, loopstation, switch e controller di segnale.
Il nerd che è in me scatta foto a raffica.
Il mio amico musicista le definirà “strapreziose”.
Completano l’installazione degna di una Biennale cinque chitarre (tre acustiche e due classiche) e una cigar-box.
Di lato rispetto a questo ben di Dio, un sampling pad.
Guardando il palco, in fondo a destra un pianoforte acustico con abat-jour da tavolo appoggiata e una piccola tastiera.
A sinistra una poltrona e un tavolino in stile Luigi XV, una bottiglia di cristallo con dell’acqua e limone – che periodicamente berrà – e un’altra abat-jour.
Mi concentro temporaneamente sull’aspetto tecnico, perché una parte della mia testa è altrove e si fa alcune domande.
E forse ha preferito essere altrove anche una parte del pubblico potenziale: la sala Sinopoli è piena solo per metà.
Gli spettatori saranno seicento, forse anche qualcosa in meno.
Il conto è approssimativo, ma credo che in tempi più sereni i posti occupati sarebbero stati molti di più.
Buio in sala, Asaf Avidan entra in completo scuro, camicia bianca e cravatta blu.
I primi pezzi sono al pianoforte, la voce è tirata allo spasimo: intensa, classica ma con microvariazioni blues.
In ‘Lost Horse‘ si fa strada a gomitate e acquista spazio e prospettive insolite.
Passa in un vocoder e in un harmonizer e chiude in un loop insieme al piano.
È un one man show, in cui non fa alcun utilizzo di basi o sequenze, usa loop ed effetti, ma ogni suono viene da lui prodotto o creato sul palco hic et nunc.
«Voglio tirar fuori verità da me stesso. Voglio darvi purezza di sentimenti. Poi amo sorprendermi. Con un pc è come giocare una partita di cui sai il risultato finale. E amo anche l’errore come capacità di sorprendermi e segno di umanità».
Poi regala un sorriso.
«E adesso che mi sono costruito la giustificazione per gli sbagli che farò possiamo andare avanti».
Si sposta e va al centro del palco, dove sono le chitarre e le pedaliere ma prima di continuare dà la sua risposta alle domande che quella parte della mia testa che era altrove si stava facendo da un po’.
«È importante che vi dica alcune cose. Proprio un mese fa iniziava la guerra. Io ero già in tour e il mio manager mi ha chiesto se me la sentissi di continuare. Io gli ho risposto di sì perché l’arte è allo stesso tempo un oggetto e un simbolo […] perché è […] soggettiva, oggettiva e collettiva. È un linguaggio universale dell’anima. Un linguaggio che […] permette di vedere la nostra fragilità e complessità e con questo ci dà la possibilità di coltivare empatia […] L’arte consente di dare dignità alle nostre emozioni spezzate. I nostri cuori sono tutti uniti in un dolore universale. Se riusciamo a sentire il nostro dolore, non abbiamo bisogno di trasformarlo in rabbia».
Con le chitarre acustiche, il fingerpicking e l’armonica a bocca Avidan si muove verso l’universo country e folk.
Ma la sua voce è sempre garanzia di personalizzazione, qualunque cosa faccia.
In ‘Little Parcels‘ vira verso il blues: pur non avendo certamente una vocalità “nera”, riesce a tirar fuori un’espressività carica di visceralità e sofferenza.
Diventa poi tutt’altra cosa quando sulla coda del pezzo, entrano i suoni di batteria suonati con le bacchette sui pad e gioca con la timbrica della sua voce – negli effetti di pitch e delay.
Tiene la scena con padronanza.
Racconta aneddoti, si scusa per aver dimenticato l’italiano e “incolpa” per questo la sua fidanzata marchigiana presente in sala con tutta la sua famiglia, nonna compresa.
Poi di nuovo crea silenzio, coinvolgimento e attenzione massima.
In diretto contatto con le sue emozioni, la sua voce è il miglior tramite per farle arrivare al pubblico, mantenendo forza e intensità.
Anche pezzi blues come ‘Over You Blues‘ o ‘Bang Bang‘ acquistano una diversa forza espressiva e presentano originalità di soluzioni sonore e di arrangiamento. In particolare, il secondo, con il loop di batteria sul quale improvvisa usando una bacchetta di legno come slide sulla cigar box e costruendo fraseggi arabeggianti.
Con ‘Man Without‘ intuisco invece che possa essere un grande ammiratore di Tom Waits.
Chitarra classica, seduto sulla poltrona, canzone pulita, nessun effetto.
‘My Tunnels‘ è il momento più intenso, malinconico, doloroso e introspettivo e oscuro – «Non hai nulla da temere tranne l’amore, amico mio. Siamo talpe, ciechi contro il buio […] Stai meglio qui, dove i tunnel non finiscono mai».
È il pezzo che precede l’ormai celebre ‘Reckoning‘.
Di questa a colpirmi è il silenzio che riesce a creare nella sala, prima di essere definitivamente messo ko dal pianissimo della sua voce in chiusura dell’ultimo ritornello. Devastante.
E mi si inumidiscono gli occhi.
Chiude la prima parte ritornando tra chitarre e multieffetti.
‘Your Anchor‘ è un viaggio sulle coste irlandesi: i riverberi della chitarra acustica e gli echi ci riportano in atmosfere folk, stavolta celtiche.
Non manca l’effetto gabbiano con lo slide.
Esce tra gli applausi e una standing ovation del pubblico
Quando rientra per il bis decide di eseguire una canzone non inserita nella scaletta ufficiale della serata.
Quantomeno, non in quella a disposizione dei suoi tecnici di luci e suono, che gentilmente mi hanno fatto fotografare.
E spiega così:
«Questo brano è stato scritto e registrato molto prima che scoppiasse la guerra. Tuttavia, ogni sera che la canto, sento che descrive al meglio i miei sentimenti attuali. E questa canzone in fondo è ciò che davvero voglio dire in notti come questa».
La canzone si chiama ‘Not in Vain‘ ed è inserita nel progetto “In a Box III”, canzoni registrate in audio/video live, in presa diretta, senza editing, sovraincisioni o modifiche in post-produzione.
La produzione è italiana, l’ensemble comprende pianoforte, quartetto d’archi, voce e cori. Affida le sue parole alla musica, Asaf Avidan.
«Stasera nostri cuori si uniranno. Non invano. Ma nel dolore Amen!».
E prima di salutare il pubblico eseguendo ‘Labyrinth Song‘, e di essere salutato con la seconda standing ovation della serata lascia la sua richiesta per noi.
«Non dimenticate di essere umani. Non dimenticate di essere fragili»