Archive, viaggio attraverso gli archetipi
Nella psicologia junghiana gli archetipi sono contenuti psichici presenti nell’inconscio collettivo di una società o di una cultura ed ereditati dai singoli individui che di essa fanno parte.
Sono rappresentati come metafore, o immagini, a forte risonanza emotiva.
James Hillman si spinge oltre: li definisce la manifestazione del viaggio intrapreso dalla specie umana, dagli albori della sua comparsa sul pianeta fino a oggi, e compiuto da ognuno di noi all’interno della propria anima.
Gli archetipi raccontano delle relazioni tra gli umani e gli Dei, parlano di temi universali ed eterni che accompagnano da sempre la nostra esistenza.
All’interno di una cultura, trovano manifestazione visibile e tangibile nei miti, nei racconti, nelle leggende, nel cinema, nella pittura, nel teatro, nella letteratura, nella musica.
Toccano emozioni profonde e inconsce, se ne fa un uso – o un abuso – anche in pubblicità e più in generale nella comunicazione persuasiva a ogni livello.
Nelle loro rappresentazioni assumono le sembianze di metafore universali.
Ci circondano ovunque, ma ne siamo inconsapevoli.
È la conseguenza dell’aver perso il contatto con la nostra interiorità.
Esattamente un anno fa, Darius Keeler, fondatore degli Archive nel 1994 – insieme a Danny Griffiths – scopre di avere un cancro al colon.
Affrontare un evento come questo è di per sé incamminarsi lungo un percorso archetipico.
L’avventura dell’Eroe che varca la soglia e affronta il Viaggio dentro sé stesso.
La scoperta della ferita, la perdita dell’innocenza, la chiamata del proprio daimon e l’accettazione della sfida, l’incontro con i compagni di viaggio, il superamento della prova, il ritorno da vincitore.
E il trofeo, simbolo della vittoria ed esibito nel suo trionfo, non è altro che la profonda consapevolezza di sé acquisita nel viaggio.
Per Keeler il ritorno dell’Eroe è stasera.
Con gli Archive là dove avevano interrotto 12 mesi fa, recuperando le date del tour annullate.
Torna e lo fa fa nel modo a lui più consono, suonando la musica degli Archive al massimo delle potenzialità evocative.
Torna e risveglia gli archetipi.
Quelli che custodisco dentro di me.
Avviene durante l’esecuzione di ‘Lights‘, circa un’ora dopo dall’inizio del concerto.
Potrei parlare dell’orchestrazione, della scelta dei suoni e della struttura del pezzo ma sarebbe lasciare il racconto a metà.
O forse di parlare di qualcos’altro, almeno per stasera.
La musica sale lenta e inarrestabile come le maree oceaniche del nord.
Il cantato di Dave Pen avvolge dentro volute tentatrici e seduttive – archetipo dell’Amante – la parte di noi che ricerca amore e fusione con gli altri.
Poi le timbriche vocali mutano natura diventando parte di un rituale purificatore, passaggio verso un mondo ignoto e da scoprire. È l’archetipo del Cercatore, la parte della nostra personalità che abbandona le certezze per aprirsi alle infinite possibilità.
Ogni brano degli Archive è un viaggio attraverso le rappresentazione archetipiche.
‘Conflicts‘ è una tempesta solare: sequenze di drum machine insieme alla batteria.
Potrebbe benissimo essere scambiato per un pezzo dei Prodigy e non stonerebbe affatto anche un intervento di voce di Keith Flint.
È il pezzo più violento del live.
Basta anche solo fermarsi al titolo perché sia chiaro il richiamo, dal profondo dell’inconscio collettivo, dell’archetipo del Distruttore.
‘Hear There & Everywhere‘ è una cerimonia druida di consacrazione a una divinità del Sole.
Fino a quando la tensione va a crescere e spicca un volo tra fulmini e creature di altri mondi o di altri tempi.
Chiude alla velocità della luce, con le luci stesse di palco che saturano ogni possibile canale sensoriale.
Stasera, far riferimento ai generi musicali è un esercizio da burocrate della vita la cui missione è appiccicare targhette sulle esperienze cui va incontro.
Stasera è così.
Se invece fossi già a domattina, potrei dire che la band inglese pensa anche a queste persone.
La gamma di etichette cui poter attingere è piuttosto ampia: progressive, elettronica, con parentesi punk e la maestosità del metal sinfonico.
Alcuni passaggi sono sospesi e vaporosi, con intermezzi evocativi, come in ‘Vice‘, in cui il piano di Danny Griffiths resta da solo ad arpeggiare sotto l’armonizzazione a due voci di Pollard Berrier e Dave Pen.
Che ne siamo consapevoli o meno, nella capacità di entrare in risonanza con queste potenti metafore dell’inconscio collettivo risiede la magia, l’intensità e il coinvolgimento della musica degli Archive.
Da parte loro, non scadono mai nel virtuosismo fine a sé stesso e si mettono al servizio delle emozioni.
Il suono segue un percorso di trasformazione alchemica.
Ogni brano nasce dalla pesantezza del piombo: passa per i diversi elementi chimici, si libera dagli aspetti più materiali e terreni e ci conduce all’essenza e alla purezza dell’oro.
Per poi ritornare piombo, nell’eterno ciclo di trasformazione che lega indissolubilmente spirito e materia.
Potevo parlare degli arpeggi di chitarra che diventano improvvisamente muri di distorsione, degli incastri melodici a tre voci, dei groove elettronici che sarebbero da ballare scatenati se non ci fossero le sedie.
Ma ho l’ardire di parafrasare qualcuno e credo che nella Musica l’essenziale sia inascoltabile per le orecchie.
Aggiungo solo due dovute note a margine.
La prima: quella di un opening.
Situazione insolita nei concerti in Auditorium, almeno per la mia esperienza.
I bolognesi JoyCut accolgono il pubblico che entra in sala e regalano lunghe suite in cui l’elettronica si amalgama con l’impianto percussivo del loro suono.
Band interessantissima, ma penalizzata dal contesto in cui avviene la loro esibizione.
Le luci di sala accese e il pubblico che entra e cerca il posto non aiutano a focalizzare l’ascolto e l’attenzione su di loro.
La seconda: come sempre faccio in Auditorium, rinuncio al mio posto a sedere per sistemarmi in piedi.
Solitamente staziono vicino al mixer di sala.
Libero il corpo dal confine angusto di una poltrona pensata per la musica classica e posso appuntarmi sensazioni e considerazioni senza disturbare chi ho intorno.
E poi, mi piace anche guardare l’ingegnere del suono: un musicista aggiunto che in pochi notano, ma che ha la principale responsabilità della riuscita di un live.
Quello degli Archive riesce nell’impresa di tirar fuori un suono che per due ore abbondanti mi fa dimenticare dove io sia e cosa stia facendo.
Ma la mossa da fuoriclasse la fa prima che inizi il live: chiede a un responsabile di sala l’autorizzazione ad usare una microtorcia, temendo che possa dar fastidio alle persone che prenderanno posto nella fila sotto di lui.
In un’epoca di individualismi, le rivoluzioni le faranno persone così.
Quelle che dentro di sé nutrono e proteggono l’archetipo dell’Angelo Custode.