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Algiers, specchio di una consapevolezza culturale

“La Battaglia di Algeri” è un film del 1966 di Gillo Pontecorvo.
Leone d’Oro a Venezia, interamente ambientato nella capitale algerina e girato con attori non professionisti.
È una testimonianza storica che racconta con l’occhio del documentarista la lotta rivoluzionaria per l’indipendenza algerina dal governo francese.
I protagonisti furono combattenti durante la guerra di liberazione e attinsero alla propria storia personale per interpretare i ruoli del film.
La distribuzione della pellicola in Francia fu proibita fino al 1971.
Fino a pochi anni fa il film era studiato dagli alti funzionari del Pentagono, per affinare di strategie e tecniche antisovversive.
Il film era loro presentato con una didascalia che recitava «Come vincere la guerra militare contro il terrorismo e perderla sul piano delle idee».
È una pellicola molto ben nota ai funzionari antiterrorismo di molti stati.
Gli Algiers prendono il nome da questo film.

Da Algeri ad Atlanta, capitale della Georgia; non la repubblica caucasica, ma lo Stato del sudest degli USA.
Nota al grande pubblico per due principali motivi: per ospitare la sede della Coca Cola e per le Olimpiadi del 1996, quelle del centenario, scippate ad Atene (che si rifece qualche anno dopo a discapito di Roma).
Si fece conoscere da me nell’estate del 1979 per una serie di ventotto omicidi – ventidue bambini tra i sette e i diciassette anni e sei adulti – con una particolarità: erano tutti afroamericani.
I telegiornali dell’epoca raccontavano del coprifuoco decretato dalle autorità cittadine, dei genitori che ritiravano i bambini dalle scuole e proibivano loro di uscire di casa.
La striscia dei delitti andò avanti fino al maggio 1981 e cessò dopo la condanna all’ergastolo di Wayne Williams, anch’esso appartenente alla comunità nera, per due omicidi di adulti.
A Williams attribuirono comunque altri venti uccisioni senza che vi fossero prove, quindi senza condanna.
Formalmente il caso fu dichiarato chiuso, di fatto non lo è mai stato, al punto che nel 2019, Sindaco e Capo della Polizia di Atlanta riaprirono il caso.
Williams ha sempre continuato a professarsi innocente, accusando la polizia di Atlanta di aver coperto il Ku Klux Klan per evitare rivolte e sommosse in città.
I più noti profiler dell’FBI ripetono da sempre che non esiste un solo omicida e che «la verità è assai poco piacevole».

Atlanta: la schiavitù, la sua abolizione, le tensioni razziali acute, gli abitanti afroamericani che superano il 50%, la nascita di Martin Luther King, il Center for Civil and Human Rights, e un presente in cui i diversi gruppi etnici viaggiano verso la reciproca inclusione.
Assai più che in altri Stati degli Usa.

Gli Algiers si formano ad Atlanta.

Abbiamo sufficienti elementi per inquadrare la band.

Algiers

Aggiungiamo solo qualche nota a margine per completezza di informazione:
– gli Algiers sono un gruppo multietnico: un afroamericano, un asiatico, due anglosassoni
– sono eccellenti polistrumentisti, nei dischi e sul palco fanno spesso la comparsa anche strumenti non convenzionali in contesti rock quali il violoncello o il piano preparato;
– sono sotto contratto con la Matador Records;
– devono parte della loro fama a Martin Gore, che dopo averli scoperti li coinvolse in diversi opening (tra cui le date italiane di Milano, Bologna e Roma) del tour del 2017 dei Depeche Mode

Nella loro musica, confluiscono le istanze di lotta per l’uguaglianza, per i diritti delle minoranze afroamericane degli Stati Uniti.
Lotta che non può prescindere dalla consapevolezza culturale e identitaria e dal senso di appartenenza a una comunità che travalichi ogni confine.
Il lavoro su questo senso di comunità allargata è ribadito con forza a partire dalla copertina del loro ultimo lavoro “Shook”.
Un cane nero che morde la catena che lo tiene bloccato e insieme ad esso l’elenco degli artisti che vi hanno preso parte.
Tutti tranne uno – Zack De La Rocha – appartenenti alla comunità dei rapper di Atlanta.
Il disco presenta un suono assai più rivolto verso il mondo dell’hip hop rispetto ai precedenti.

L’effetto fumo è ormai una certezza della Sala Teatro del Monk, per la gioia dei fotografi, che tuttavia resteranno a scattare per più dei convenzionali tre pezzi.
L’affluenza non è quella dei compagni di etichetta bar italia, ma comunque è buona.
Si incontrano volti noti della discografia e della stampa di settore.
Volti ai quali riconosco notevole competenza; buon segno.
Sul palco campeggia un ampli Vox Ac30; altro buon segno

L’apertura è con ‘Irreversible Damage‘, seconda traccia di “Shook”.
L’attacco è tipicamente industrial.
Trattasi di sequenze che, con l’entrata del drumming di Matt Tong, incalzante e primitivo, diventano un martello pneumatico.
L’intro non lascia scampo e prepara il terreno per la mitragliata rap di Franklin James Fisher.
Il pezzo esplode e acquista respiro e spazio con il muro di chitarra carica di distorsione e delay.
Se deve essere sovversione, che lo sia fino in fondo.
Si prosegue con ‘Cry of the Martyrs‘ e ‘Walk Like a Panther‘, un salto nel recente passato, che ci riporta al loro secondo lavoro “The Underside of Power”.

Se c’è una cosa che amo è vedere ribaltate le aspettative che il mio cervello per sua natura si era costruito dopo l’ascolto di “Shook”.
Il concerto ha un suono più rock del previsto e accolgo la cosa con favore.
Il background gospel e soul di Fisher è evidente, la voce passa nei loop e si immerge in un mare fatto di delay, riverberi, loop e altri pedalini con i quali si diverte a giocare e grazie ai quali manda fuori di testa il pubblico presente nella sala teatro del Monk.
Lee Tesche martirizza un archetto sulle corde della sua chitarra e Ryan Mahan, al basso, sequenze, campionamenti e tastiere, oltre a essere un gran musicista si passa il testimone di frontman con Fisher stesso. Sullo screen – purtroppo solo parzialmente visibile – turbinano immagini, fuoco, rivolte, lotta, politica.
Frammenti montati vorticosamente alternati alle parole dei testi.
È il turno di ‘73%‘, uno dei singoli estratti dall’ultimo disco; «una lettera d’amore impressionista al movimento di New York City» in cui più marcate sono le sonorità rock.
E intanto si forma nel mio schermo mentale un’associazione dirompente e ardita: se gli Sleaford Mods sapessero suonare e cantare sarebbero la versione europea degli Algiers. La lotta per i diritti, per l’uguaglianza, il tentativo di creare identità comunitaria accomuna le due band.
I balletti di Mahan e Simon Parfrement fanno altrettanto.
Le capacità musicali no.
Quelle no.
Severo ma giusto.

L’influenza della black music è evidente in ‘Blood‘, quando colgo nel modo di cantare di Fisher riferimenti e rimandi a un piccolo genio di Minneapolis: Roger Nelson in arte Prince.
La sua voce è una pantera nera, su una base di backing vocals sintetiche.
Irony. Utility. Pretext‘ ci riporta ai fasti del loro omonimo album di debutto.
L’intensità e la drammaticità raggiungono l’apice della serata.
Un’intro vintage, suoni di tastiera simil moog, che fanno da apripista a un treno di basso che fa tremare e di una batteria incalzante, incessante, imponente, incurante.
Soul, rap e punk si prendono per mano.
I Clash vanno a braccetto con gli Spoken Word di Gil Scott Heron e creando un ponte sul futuro arrivano ai nostri giorni.
L’impegno politico e l’energia rivoluzionaria trovano compimento e fedele traduzione sonora.
La voce nera di Fisher, carica di delay ed effetti di pitch, si mescola insieme a una devastazione sonora, forse uscendone un filo penalizzata dalla resa acustica dell’impianto o del locale.
Ed è l’unica zona grigia del concerto.
Ma l’impatto è di quelli che ti mandano il respiro in controtempo.
La musica degli Algiers è un’arma.
I Can’t Stand It‘, altro estratto di “Shook”, vola su un tappeto di sequenze elettroniche e industrial.
Non mi dilungo troppo in analisi elaborate.
Nel file word sul quale appunto sensazioni e osservazioni in tempo reale mi scopro a scrivere soltanto “pezzo di Cristo”.

Algiers

Black Eunuch‘ è un raggio di luce divina.
Una messa gospel carica di speranza e liberazione dal finale esplosivo.
Fisher assurge al ruolo di predicatore.
Il volume degli strumenti è così alto che potrebbe recitare anche la ricetta della carbonara nel microfono senza che il pubblico se ne accorga.
Guadagno le prime file subito prima dell’attacco electropop di ‘Cold World‘ e mi godo come si deve la danza di anarchica di Ryan Mahan.
E si chiude con ‘Bite Back‘, forse il manifesto – artistico e non solo – di “Shook”.
Il suono è quello che più caratterizza il disco di recente pubblicazione.
Cellule vocali che entrano in loop, batteria elettronica, sequenze hip hop, l’invettiva rap di Fisher – nel disco divisa a metà con Billy Woods – che incalza «mordi la mano che ti nutre se è veleno» e sullo schermo il cane della copertina del disco

Il bis è uno dei brani più presenti nelle loro scalette: ‘Death March‘, che si conclude a sfumare con un loop vocale infinito.
Mi prendo qualche minuto per riportare pulsazioni, frequenza respiratoria e pressione sanguigna ai loro valori basali, poi rientro in sala.
È vuota, fatta eccezione per la band impegnata a smontare gli strumenti, qualche fan a caccia di selfie e autografi e un importante esponente del giornalismo musicale (niente nomi, sono cose che attengono alla privacy) che si congratula con Franklyn James Fiher.
Il vocalist è il ritratto della placida bonarietà e rilassatezza.
Racconta del tour europeo, dei trenta gradi incontrati ovunque dell’«autunno che era la mia stagione preferita e ora non esiste più» (giuro, signora mia, è tutto vero) e di Roma, trovata in pessime condizioni (l’aggettivo utilizzato è ben più colorito).
Forse nell’Urbe manca davvero una band come gli Algiers.
Senza forse.
Sicuramente.

Roma, 26 ottobre 2023

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