Abbath, l’inferno può attendere
Archiviate le festività natalizie ed i bagordi del Capodanno, si può finalmente riprendere contatto con la musica dal vivo ed inaugurare conseguentemente la stagione concertistica di un 2024 che, fin dai suoi primi vagiti, si preannuncia ricco ed oltremodo interessante, in virtù di un calendario che giorno dopo giorno si sta popolando sempre più con nomi ed eventi ai quali sarà davvero difficile rinunciare.
Superata la delusione della falsa partenza causata dall’annullamento del concerto degli 69 Eyes previsto per venerdì 5 gennaio (a quanto pare vittime della microcriminalità lombarda), cerchiamo di dare un senso a questa uggiosa prima domenica dell’anno transumando allegramente verso lo Slaughter Club di Paderno Dugnano, dove ci aspetta una serata all’insegna dell’estremo che vedrà come protagonista l’ex-Immortal Abbath e la sua omonima band, per un appuntamento che si presenta come assolutamente imperdibile per tutti gli amanti del black metal.
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Ed in effetti il richiamo è stato forte, tanto da riempire lo Slaughter fino ai limiti della propria capienza.
Giunti al locale, infatti, ci mettiamo comodamente in coda sotto una pioggerellina non poco fastidiosa, e attendiamo pazientemente in coda che vengano espletate le modalità di ingresso – peccato che nel frattempo siano saliti sul palco gli Hellripper, di cui ci sarebbe piaciuto raccontare qualcosa di più ma che per questioni meramente logistiche (si era – per l’appunto – in coda) più che visto abbiamo ascoltato, per quanto si possa ascoltare dall’esterno del locale. Voci di chi era già presente all’interno del Club ci confermano comunque una buonissima prestazione di quella che a tutti gli effetti è una one-man-band, mastermind della quale è il giovane polistrumentista scozzese James McBain, che avremo comunque modo di incontrare e salutare al banchetto del merchandise ad esibizione terminata.
Riusciamo finalmente ad accedere al locale proprio in coincidenza del cambio palco, che viene sgombrato dalla strumentazione degli Hellripper per far spazio a quella dei Toxic Holocaust, trio americano originario di Portland (Oregon), e capitanato da Joel Grind (voce e chitarra), già visto all’opera con i Grave Mistake e i The Rapists. Nella mezz’oretta o poco più a disposizione, Grind e soci rovesciano addosso al pubblico dello Slaughter una dozzina di brani in cui il thrash-metal più basico incontra l’hardcore punk, in un groviglio di suoni violenti ed affilati come rasoi, che, come il fuoco sotto la cenere, innescano randomicamente focolai di pogo e di moshpit, da cui chi scrive – stante l’età – ha cercato di stare quanto più alla larga. In ogni caso, la band si è resa protagonista di una prestazione molto, molto coinvolgente – per quanto basici, Grind e compagni riescono comunque a convincere in virtù di un song-writing asciutto e semplice ma anche dannatamente efficace.
Mentre cerchiamo di rinfrescarci con una birretta dal calor bianco sviluppato dai Toxic Holocaust, assistiamo all’approntamento del palco degli Abbath, che si completa a pochi minuti dall’inizio quando dal backstage vediamo spuntare la grande struttura metallica che forma il logo della band, e che viene posizionata strategicamente davanti alla batteria. Terminati gli ultimi controlli alla strumentazione, arriva finalmente il momento dello show, con i pittoreschi musicisti che sfilano prendendo posizione sul palco.
Al basso non troviamo la ‘nostra’ Mia Winter Wallace, impegnata con i Nervosa e sostituita per questo tour da Frode Kilvik dei Gaahls Wyrd.
Rispettivamente alla chitarra ed alla batteria troviamo i fedeli Ole Andrè Farstad e Ukri Suvilehto, mentre la star della serata si palesa naturalmente per ultimo, agghindato come il suo solito e ovviamente sfoggiando l’iconico face-paint stile panda infernale.
Ineluttabile la partenza a tema Immortal, con una ‘Triumph’ accolta entusiasticamente dal pubblico, che però lascia subito spazio all’ultimo album ‘Dead Reaver’ da cui vengono inanellate in sequenza ‘Dream Cull’ e ‘Acid Haze’, mentre la title-track troverà spazio poco più avanti nel set.
I suoni, per lo meno da dove siamo posizionati, non sono propriamente il massimo, diciamo che l’intensità ha sopperito alla qualità ma forse forse dal punto di vista sonoro si poteva fare qualcosa di più. Il concerto si snoda poi su temi abbathiani da passato quasi remoto con una ‘Battallions’ che riporta alla memoria il progetto ‘I’ e con tre brani consecutivi degli Immortal – tra cui spicca una meritevole ‘In My Kingdom Cold’ – gettati strategicamente in pasto agli affamati nostalgici sparsi tra il pubblico.
Paradossalmente abbiamo trovato il concerto più a fuoco quando a farla da padrone sono stati i pezzi tratti dai due precedenti album degli Abbath, l’omonimo debut ed il successivo ‘Oustrider’. Brani come ‘The Artifex’ e ‘Winterbane’ fanno la loro porca figura e la band in generale ci è parsa ancora più efficace proprio su questa manciata di pezzi. Visivamente, tutto il concerto ruota attorno alla figura semi-mitologica di Abbath, con tutto il suo corollario di pose da palco che lo hanno reso uno dei personaggi più popolari di tutta la scena black e che inevitabilmente catalizza gli sguardi e l’attenzione del pubblico.
Gli altri tre se ne stanno tranquillamente (per modo di dire) al loro posto, concentrati dietro al cerone per dar vita con debita precisione al tappeto sonoro su cui far sfogare il loro carismatico leader.
Dopo un’ora scarsa di concerto, con ‘Winterbane’ si chiude il main-set. La scaletta prevederebbe altri due pezzi, ma il laconico saluto al pubblico di un Abbath che abbandona lo stage decreta – presumibilmente a causa di una indisposizione – la fine di una serata che era partita benissimo ma che si conclude con una nota di rammarico e una palpabile delusione che serpeggia neanche troppo celatamente tra i numerosi fan accorsi a Paderno.
Considerando che questa era solo la seconda data del tour (la sera prima hanno suonato a Zurigo), era sicuramente lecito aspettarsi un qualcosa di più.