2Days Prog + 1 | Day 02
2Days Prog+1, tre giorni di “Veruno capitale del Prog”
Cronaca della 15ᵐᵃ edizione del festival Prog per eccellenza
Revislate, 07 settembre 2024
La seconda giornata del 2DaysProg+1 viene inaugurata dai marchigiani Odessa, attivi dal lontano 1999 e con tre album alle spalle. Ma faremmo meglio a dire quattro, dal momento che in occasione della partecipazione alla manifestazione verunense la band ha pubblicato una versione completamente ri-registrata di “Stazione Getsemani”, il disco con cui esordì 25 anni or sono e che costituisce un po’ il cuore delle loro performance in questo festival.
Guidati da Lorenzo Giovagnoli (voce, tastiere), gli Odessa si completano con Giulio Vampa (chitarra), Valerio De Angelis (basso), Giorgio Cuccia (batteria) e, al flauto, Gianluca Milanese.
Autodefinendosi ‘hard-prog band’ gli Odessa inquadrano perfettamente il loro stile settantiano, con un rock progressivo che non teme di sconfinare in campo hard rock, senza peraltro disdegnare digressioni jazzate ed aperture strumentali che restituiscono all’ascoltatore un impatto sonoro notevole, richiamando alla memoria storiche formazione nostrane, in primis gli Area di Demetrio Stratos ma anche Il Rovescio della Medaglia e Trip. Nel complesso un’esibizione vincente, che ha scaldato fin da subito i cuori degli appassionati accorsi al campo sportivo di Revislate.
Tra le nazioni più rappresentate in questa edizione del festival è doveroso citare la Norvegia, che esporta a Veruno tre delle sue migliori realtà progressive, la prima delle quali si esibisce proprio oggi, subito dopo la performance degli Odessa.
I Wobbler arrivano da Hønefoss e non sono esattamente degli illustri sconosciuti. Con il loro progressive classicamente sinfonico e dai suoni vintage, a tratti reminiscenti di quelle sonorità tipicamente scandinave di band celebrate come gli Änglagård e gli Anekdoten, in cinque lustri di attività professionale hanno riempito cinque album e girato in tour per mezzo mondo, incluso il nostro paese che li ha visti suonare dal vivo almeno quattro o cinque volte negli ultimi dieci anni, prima di arrivare questa sera su uno dei palchi più prestigiosi del prog rock europeo ed incantare il pubblico con una prestazione solida e priva di sbavature.
Nei quattro lunghi brani di cui si è composto il set dei Wobbler spiccano il notevole lavoro alla chitarra di Geir Marius Bergom Halleland e di Lars Fredrik Froislie alle tastiere, che stendono il tappeto sonoro su cui il front-man Andreas Prestmo sfodera una prestazione vocale di caratura superiore.
Tra gli highlights citiamo senza dubbio ‘Merry Macabre’, da quello che per il momento è ancora il loro ultimo album, ‘Dwellers Of The Deep’, con cui si chiude alla grande una delle esibizioni più attese di questa edizione. E dal momento che i Wobbler condividono alcuni membri con i The Chronicles of father Robin: dal momento che si è fatto trenta, perché non fare trentuno invitando proprio questa sorta di supergruppo norvegese al festival del prossimo anno?
Con la terza band in cartellone ci spostiamo dalla fredda Norvegia alla terra d’Albione, da cui arrivano i The Enid, storica formazione guidata da Robert John Godfrey. Compositore e pianista, classe 1947 ed un passato illustre nel ruolo di musical director dei Barclay James Harvest, Godfrey fondò gli Enid nel 1973, dando così vita ad una delle più longeve (e prolifiche) formazione del rock progressivo britannico.
Il termine ‘progressivo’ non è però sufficiente a descrivere le maestose sonorità che caratterizzano la musica di questa splendida creatura musicale per la quale scomodare il termine ‘sinfonico’ non solo non è fuori luogo ma è a tutti gli effetti il termine che meglio ne descrive la cifra musicale, con quel perfetto connubio tra musica classica e rock progressivo. D’altronde non appena si spengono le luci e gli Enid aprono il loro show con ben due brani dal glorioso album d’esordio “In The Region Of Summer Stars”, appare chiaro come qui si giochi tutta un’altra partita, con l’asticella della qualità che s’impenna e vola altissima, innalzando di numerose spanne il livello di questo festival, già di per sé tutt’altro che basso.
Ed è quasi straniante osservare il pubblico che attonito ascolta in religioso silenzio, incantato da cotanta beltà musicale. Godfrey questa sera è accompagnato da una band solida e di altissimo livello, con un’inedita formazione con doppia chitarra, da quando nel 2023 il nostro Alfredo Randazzo ha affiancato Jason Ducker, il chitarrista che suona con Godfrey da oramai più di vent’anni. Insieme a loro troviamo l’ex- Steeleye Span Tim Harris al basso, e Karl Thompson dietro ai tamburi.
Lo show inanella altre quattro lunghissime suite, tra cui la spettacolare ‘Dark Hydraulic’ (dall’album “Tripping The Light Fantastic” del 1994), a chiudere una performance che ha conquistato tutto il pubblico presente – se la perfezione in musica potesse essere tangibile, probabilmente un live degli Enid sarebbe ne incarnerebbe la definizione.
Spenti gli echi orchestrali che fino a poco fa hanno risuonato nel campo sportivo di Revislate, ci accingiamo a vivere un appuntamento con la Storia del rock, laddove la S maiuscola risulta sostanzialmente d’obbligo. Sul palco è infatti atteso Arthur Brown, o meglio The Crazy World of Arthur Brown, la formazione di un arzillo ottantaduenne inglese che poco meno di sessanta anni fa (correva il 1967) insieme a Vincent Crane (organo) e Carl Palmer (batteria) si inventò quello shock-rock che poi fu adottato dagli Alice Cooper, dai Kiss e da tutti gli accoliti che vennero successivamente.
Palmer e Crane se ne andarono presto per la loro strada fondando gli Atomic Rooster, ma il coriaceo Arthur Brown continuò imperterrito a rockare e shockare sia con il Crazy World che con l’altra sua band, i Kingdom Come ma soprattutto con i suoi fantasmagorici ed infiammati (letteralmente!) spettacoli in cui fonder rock, psichedelia e pura follia teatrale, che vedevano (e vedono tutt’ora) il caro, vecchio Arthur sbizzarrirsi in un numero spropositato di campi di costume, ognuno più folle del successivo. Avete presente il corpse-paint? Beh, anche quello è colpa sua.
Vedere Arthur Brown perfomare sul palco di Veruno è un’esperienza unica, un’autentica gioia per gli occhi ma anche per le orecchie. Unica anche in senso letterale, perché Arthur Brown non è uno che si muove spesso dal Regno Unito ed averlo qui in Italia è davvero un’occasione più unica che rara.
Nell’ora e mezza di concerto abbiamo contato una ventina di cambi d’abito e di trucco, spesso e volentieri chiedendoci come sia possibile a quell’età sostenere un impegno fisico del genere, tra l’altro senza permettersi di ciccare una nota. Non per niente si fa chiamare The God Of Hellfire. Per l’aspetto visivo vi rimando alla gallery fotografica, mentre per quello strettamente musicale vale la pena citare tra i brani presentati quella ‘Fire’ che ne è un po’ il manifesto – il singolo nel 1968 raggiunse la cima delle classifiche inglesi e americane, trascinandosi dietro l’album che lo conteneva e che in questa serata è stato eseguito quasi per intero, inclusa la cover di ‘I Put A Spell On You’ di Screamin’ Jay Hawkins, posta come unico bis a chiusura dello show e di questa seconda giornata di festival.