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Turn ON Music

Sziget Festival 2023 | Day 05 | Macklemore

Cominciamo con una domanda facile: cosa è la musica?
Passione, sogno, energia, rifugio per gli introversi – soprattutto se ascoltata in cuffia – relazione, elisir di giovinezza, opportunità di business, un tappeto volante, un batiscafo per sondare le profondità dell’animo umano, una sequenza di vibrazioni a diversa frequenza di una colonna generate da un impulso meccanico o elettronico, una scusa per ballare, una scusa per innamorarsi, la colonna sonora di un incontro amoroso, un linguaggio universale che affratella.
Scegliete la risposta che più vi piace.
Per me lunedì 14 agosto alle 13.45, sull’isola di Obuda, la musica sono i Meganoidi.

Finora i miei incontri allo Sziget hanno riguardato esclusivamente band o artisti affermatisi in anni recenti.
Oggi, invece, avrò davanti una band che ascoltavo (e ballavo) alla fine degli anni Novanta e che ho visto più di una volta dal vivo.
Sono passati venticinque anni da ‘Supereroi Contro la Municipale‘, loro singolo di debutto, e ritrovo la band di Genova allo Sziget Festival con immutata energia, calore, voglia di suonare e la stessa capacità di riempire lo spazio davanti al palco di giovani e giovanissimi che aveva al tempo. Davide Di Muzio alla voce, Luca Guercio alla tromba e chitarra, Riccardo “Giacco” Armeni al basso, Saverio Malaspina alla batteria e Giulio Canepa alla chitarra conoscono l’elisir di lunga vita.
Sul Light Stage dimostrano di aver mantenuto lo smalto dei giorni migliori, dando vita a una performance grintosa e appassionata.
Condizione‘ è un brano del 2020 che ha la stessa energia del punk di quel tempo.
Sorrido e mi emoziono nel vedere ragazzi poco più che ventenni cantare e ballare lo ska-punk di ‘Supereroi‘.
Dedicano ‘King of Ska‘ agli Statuto – «Lo ska in Italia erano e saranno sempre loro».
Commuove l’emozione di Davide Di Muzio, quando al termine del concerto scende dal palco per gli abbracci con i fans (ormai diventati consuetudine qui per le band italiane).
Dichiara al microfono che «è il vostro amore che rende tutto meraviglioso come lo era un tempo», e mi brucia una domanda per l’intervista. 
Nota di cronaca: l’indicatore di decibel presente sul palco segnava 96.
È record, almeno per i concerti cui ho assistito sul Light Stage.

Meganoidi: guarda l’intervista video su IG

Meganoidi

Ma a proposito di primati e di storia, è il turno del primo italiano nuovamente sul mainstage dello Sziget: tredici anni dopo i Subsonica, ora tocca a Lazza.

Lo vedo sul palco per la seconda volta, la prima fu nell’ormai preistorico 2019.
Ero a Collisioni, il Festival Agrirock di Barolo.
Era una giovane promessa del rap italiano che in un pomeriggio rovente di luglio incontrava su uno dei quattro palchi i suoi fan.
Nulla al mondo mi avrebbe fatto immaginare che quattro anni dopo sarei stato suo spettatore sul palco principale del Festival più grande d’Europa.
Lo ammetto, assistetti all’incontro con quella punta di snobismo del cazzo che caratterizza chi pensa di saperla lunga sulla vita: atteggiamento, tuttavia, in parte smussato quando ebbi in tempo reale informazioni sulla sua formazione musicale.
Non fatico ad ammettere a me stesso, e a scriverlo qui, che la sua esibizione è una di quelle che più attendo con curiosità.
Intanto sono le quattro di pomeriggio, dopo le prime giornate fresche le temperature medie si stanno alzando.
Per fortuna il palco è gigantesco e lascia una grande zona d’ombra davanti ad esso.

Lazza

L’Ouverture lo vede ripreso dalle telecamere nel backstage, una costante qui a Budapest tra gli artisti della nuova generazione: canottiera bianca e pantaloni al ginocchio beige, smartphone tra le mani, legge un testo sopra un arpeggio di piano elettrico.
Esplosione di suono, batteria, bassi spinti al limite, chitarra cattiva: l’attacco di ‘Molotov‘ incendia i fan, per la maggior parte – ma non tutti – italiani. Con lui ad accendere il fuoco ci sono Claudio Guarcello alle tastiere, Gio’ Cilio alla batteria, Eugenio Cattini alla chitarra e Luca Marchi al basso.

Ebbene signori, lo show sta in piedi sulle sue gambe. Potenti, rocciose, esplosive.
Così come accaduto per altri generi nei decenni precedenti, la contaminazione è diventata il nucleo fondante di parte del rap italiano.
Da diverso tempo impegnato in una virata verso la musica “suonata”, proprio quando basi, campionamenti ed elettronica sembravano aver stravinto. Vedo e ascolto un’eruzione lavica di suoni hardcore, punk, metal che mi convince, mi coinvolge e mi diverte.
Lazza domina il palco, esordisce con l’inglese, per poi tornare alla lingua madre vista la prevalenza di connazionali.
Bandiera italiana al collo, ‘Bugia‘, ‘Jefe‘, ‘Chiagne‘, ‘Zonda‘ si susseguono come una valanga che più rotola verso valle più si ingrossa, un’onda sulla quale le sue rime e la sua voce surfano esaltate.
Si lancia in uno stage diving – «non era quotato oggi, raga».
Chiede di formare due cerchi per il pogo e attacca ‘Panico‘, mi trema il timpano per la potenza dei bassi.
Suoni e parole si ammorbidiscono con ‘Sogni d’Oro‘ e di seguito scorre la parte più melodica del set.
Va dietro al piano per un solo cui attacca ‘Senza Rumore‘ e ‘Morto Mai‘.
Questione di gusti personali, preferisco il Lazza aggressivo e mi chiedo se forse non sarebbe il caso di abbandonare l’autotune, che nel suo caso credo sia una scelta di caratterizzazione stilistica prima che una necessità.
Poi una tempesta di fulmini sullo megascreen dietro ai musicisti ed è di nuovo idrogeno che prende fuoco con ‘S!r!‘.
Si compiace della maglia del Milan tra il pubblico e chiede una sciarpa del Napoli, a chiudere (o forse no) una passata polemica.
Chiude con l’esplosione di una supernova che fa da cornice a ‘Cenere‘ e con ‘Ferrari Remix‘, interpretazione del pezzo di James Hype e Miggy Dela Rosa.

Jacopo Lazzarini, da Milano, ventinove anni tra pochissimo, spacca e ha tutti i numeri per diventare un crack internazionale, ma…
…ma a vederlo sono quasi solo connazionali, nonostante la vetrina dei mainstage.
Canta in italiano e la sua musica fatica a uscire oltralpe.
Parlo con un ragazzo e due ragazze a fine concerto, lancio il tema.
Una di loro non mi lascia finire la frase «mi darebbe fastidio se cantasse in inglese. È italiano!».

Ho ascoltato in questi giorni artisti da mezza Europa.
Fatta eccezione per i progetti di scena sul palco del Global Village dedicato alla world music, tutti hanno avuto denominatore comune: testi in inglese e pubblico internazionale.
Tasto dolente quello della provincializzazione della musica italiana, conseguenza dalla scarsa diffusione della conoscenza della lingua inglese nella popolazione e delle comprensibili resistenze da parte dei nostri discografici.
Non è un caso che i rari casi di artisti italiani con seguito estero abbiano prodotto musica prevalentemente o solo strumentale.
Penso al Banco del Mutuo Soccorso, della PFM, dei Goblin e quello dei nostri giorni dei Nu Genea, nella cui musica il testo in napoletano ha valenza connotativa ed emotiva e non denotativa.
O musicisti di nicchia spesso ignorati all’interno dei confini del Belpaese.
Oppure artisti che hanno realizzato in parallelo versioni per i mercati esteri: esempi più immediati Zucchero e la già citata PFM per gli Stati Uniti, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti per Spagna e Sudamerica.
Oppure sono i Maneskin, non si pongono il problema, cantano (e parlano) in inglese e si fanno trenta date tra settembre e novembre in Nord e Sudamerica, Asia, Oceania ed Europa. Le date sudamericane, australiane, europee e giapponesi sono sold out.
Potrebbero fare da traino a un intero movimento, ma non succederà perché…«…siamo italiani, perché devono cantare in inglese?».

State bene così ragazze e ragazzi. Io vado a mangiare il mio consueto fish and chips delle 17.30 e poi torno qui davanti al palco principale

Parentesi tecnica: la Roland Tr 6s è una delle ultime drum machine prodotte dalla casa di Osaka.
È l’ultima evoluzione digitale delle vecchie 808 e 909, degli anni Ottanta e Novanta, che hanno fatto la storia dell’hip hop e di gran parte della musica elettronica di quegli anni.
Nel suo interno si ritrovano le banche di suoni che hanno caratterizzato la nascita dell’hip hop.
Ed è una Tr 6s in primo piano sui megascreen che apre il set di Lorde.
La cantautrice originaria della Nuova Zelanda con nazionalità croata appare con qualche minuto di ritardo.
Come Lazza e altri, inizia dal backstage per poi apparire introdotta dall’ormai abituale colpo di cassa e bassi.
Top viola, minigonna blu, biondissima, appare davanti a un enorme sole dorato, con davanti una tenda di dischi specchiati e argentati.
Il sole si sdoppia durante lo show, creando un particolare effetto eclissi.
Lo guardo e ritengo doveroso rendere omaggio, lode e grazie ai tecnici di tecnici di palco, che in pochissimo tempo smontano e rimontano scenografie e consentono a ogni artista di esprimersi al meglio.
Tornando alla musica, prendo nota che anche la migliore drum machine non ha ucciso la musica analogica, dato che è una batteria con pelli, meccaniche e piatti quella che vedo suonata sul palco.
Non essendoci altro, l’artista si affida ad un harmonizer per le backing vocals che sostengono i pezzi armonicamente e riempiono.
Ha una bella scrittura, gusto negli arrangiamenti, interessante la ricerca sui suoni che creano contrasto e danno risalto alla leggerezza della sua voce che modella sequenze melodiche come perle colorate infilate in una collana.
Si può fare un pop di alta qualità con attenzione alla direzione che stanno prendendo i suoni del mondo.
Ma non posso scrivere di più.

Lorde

Guardo l’orologio, devo correre nel backstage dell’Ibis x Europe Stage per l’intervista con Mezzosangue.
Mi perdo, ahimè, buona parte della sua performance, e il duetto con Caroline Polachek, che sale con lei sul palco durante ‘Melodrama‘.
L’enorme spazio antistante si sta riempiendo e io sono piuttosto vicino al palco, ci metto un po’ a uscire e gioisco pensando che non si è mai troppo vecchi per guarire dalla propria agorafobia.
Intervisto il rapper romano, dieci minuti per godermi gli The Haunted Youth, band belga shoegaze e dreampop.
Mi risuonano forte dentro, il logo della band contornato da due ali di pipistrello stilizzate.
Li segno sul taccuino, mi iscrivo al loro canale sull’app che utilizzo per ascoltare musica e mi rifiondo al volo sotto il palco principale.
Sta arrivando Macklemore.

The Haunted Youth

«La cosa più importante che ho imparato durante il periodo di rehab? Che sono impotente nei confronti delle droghe.
La dipendenza è insidiosa, ti dice costantemente bugie in modo che tu possa uscire e dire: “Sai una cosa? Penso che la cosa migliore per me ora sia uscire e sballarmi”.
In ‘Chant‘ volevo sfidare me stesso, superare i momenti di blocco dello scrittore e catturare lo spirito di cosa vuol dire superare qualcosa, superarlo e alzarmi il giorno dopo e farlo di nuovo»

A parlare di sé stesso così è il rapper di Seattle, all’indomani dell’uscita di “Ben”, uscito nel marzo di quest’anno, con all’attivo sessanta milioni di copie vendute.
È il suo primo album dopo sei anni e un lungo periodo di rehab per uscire dal tunnel di alcol e droghe in cui era caduto per la seconda volta.
Chant‘ è il singolo della rinascita, il simbolo del nuovo Macklemore ed è, infatti, la canzone con cui apre il suo concerto allo Sziget Festival 2023.
A simboleggiare il nuovo Ben – così lo chiamano i familiari e gli amici stretti e così ha deciso di intitolare il disco – le immagini in bianco e nero di fenomeni naturali: stormi di uccelli, , nuvole, cascate, mare, onde, pioggia.
L’acqua a far da padrona.

È uno spettacolo a trecentosessanta gradi, potente e curato. 
Le canzoni hanno forti connotazioni black, sia sonori che scenografici.
Accanto a lui si muovono in sei: un basso, tre fiati e due coriste, più il drumming da una parte.
Davanti a lui si agitano quarantacinquemila persone che ringrazia con il cuore.
Ha carisma e animo aperto, interagisce e apre dei veri e propri siparietti comunicativi con il pubblico.
Un maestro di cerimonie – o MC, per dirla correttamente – che ha voglia di lasciarsi alle spalle le ombre del passato.
Thrift Shop‘ è un hip hop pazzesco, rappato da quasi cinquantamila persone, poi rischia e osa l’inosabile, lanciando vocalizzi come un signore con baffetti, adidas, canottiera e mantello nel luglio di trentotto anni fa a Wembley e chiedendo la risposta del pubblico: la ottiene.
Tesse le lodi di Budapest e dei concerti («nulla può competere con l’energia della musica dal vivo. Nessun social, nulla di nulla»).
Le parole sullo Sziget, un posto dove nessuno viene per giudicare, introducono ‘Same Love‘. 
Esiste un solo amore, “paziente e gentile” oltre ogni sesso, religione, cultura.
Wing$‘ ha un intro alla “spaghetti western”, ‘These Days‘ trascina nuovamente in un canto all’unisono tutto lo Sziget.
Durante ‘And We Danced‘ indossa mantello blu e una fascetta dello stesso colore e richiama una ben precisa iconografia ma il tempo corre e gli accordi con l’organizzazione del festival prevedono una fine anticipata.
Saluta un quarto d’ora prima del solito, alle 22.34: sfora di quattro minuti, «mi hanno appena comunicato nell’auricolare che il mio cachet verrà decurtato di diecimila euro per ogni minuto di ritardo».

Macklemore

Qualcuno resta con il dubbio, in realtà è una gag già portata in scena altre volte.
Scaletta non ricca di pezzi, ma intensa e coinvolgente: non che abbia bisogno della mia approvazione, ma il ”nuovo” Macklemore è promosso a pieni voti.
Al quinto giorno di festival sono diventato bravo nella difficile arte del cambio palco durante un festival.
È abbastanza indolore e rapido il solcare il mare delle migliaia di persone per raggiungere nuovamente il palco dove tra pochi minuti si esibirà Mezzosangue.

«La mia famiglia è spaccata a metà: da parte di madre sono artisti, da parte di padre sono tutti operai.
Io sono il risultato di questa spaccatura, un mezzosangue, cavallo forte, che tira dritto testa bassa per la sua strada.
Più resistente di tutti gli altri cavalli, ma senza il pedigree per gareggiare».

MezzoSangue

Si racconta così, tre ore prima di salire sul palco dello Sziget, Luca Ferrazzi, alias Mezzosangue, rapper romano per la prima volta qui sui palchi del festival.

MezzoSangue: guarda l’intervista video su IG

Pensarlo come rapper è riduttivo ed è un torto alle diverse sfumature e al lavoro di costruzione, ricerca musicale e amalgama sonora che fa da fondamenta alla sua musica.
Ama confrontarsi con altri musicisti, ama la musica “suonata” al punto da portare in un precedente tour un’orchestra con tanto di violini e pianoforte. Stavolta qui ha con sé i fidi compagni d’avventura: Jacopo Volpini alla batteria e Daniele Giuili alle chitarre e alle tastiere.

Una spaccatura, di qualsiasi tipo sia, provoca uno squilibrio.
Uno squilibrio è il trigger che scatena un passaggio di energia volto al ripristino di un punto di omeostasi.
Avviene sia nel mondo fisico (l’elettricità, i terremoti, lo scorrere dei fiumi, il trasferimento di calore) che in quello psichico.
Più è grande è la spaccatura, maggiore sarà l’energia che esso genererà.
Ed è essa stessa l’origine della forza creativa di questo ragazzo di trentadue anni, inquieto, che ricerca e non si accontenta di risposte facili e preconfezionate – sul palco, nella musica e nei suoi testi.
Ed è forse in questa spaccatura l’origine di una sete insaziabile che prova a sublimare attraverso la realizzazione artistica: sete di vendetta, di certezze, di morte, paura, scelte e amore.
Sete il cui appagamento potrebbe risolvere l’apparentemente insanabile frattura della vita.
Sete fil rouge del suo ultimo concept album.
Se non fosse chiaro, basta ascoltare il testo di ‘Armonia e Caos‘: Eros e Thanatos, pulsione d’amore e pulsione di morte.
Principi in perenne conflitto, simboleggiati da un cavallo bianco e uno nero raffigurati nelle immagini che accompagnano il pezzo.
Yin e yang, che tuttavia si compenetrano, ciascuno dei quali contenendo nel suo interno il nucleo del suo opposto.
O basta anche notare al suo cambio di outfit, dal nero della prima parte del set, al bianco della seconda.
Il messaggio diventa denuncia in ‘Ned Kelly‘, quando grida che «l’Italia è una colonia di lobbisti, è come una fottuta lunga eclissi» e di voler morire come il Robin Hood australiano. 
Porta poi in superficie i suoi personali fantasmi e la sua lotta quotidiana contro di essi attraverso la metafora di Benoit Lecomte, il francese che nel 2018 percorse a nuoto l’intero Oceano Pacifico, dal Giappone fino a San Francisco.
L’eterna dualità e il conflitto che ne consegue ritorna in ‘Amore o Paura‘, tra palliativi, fughe o il coraggio di chiudere gli occhi per veder trasformarsi l’ignoto in un trampolino verso ogni possibilità.
A far da collante e a dare ulteriore spessore e forza d’impatto ai testi c’è l’affiatamento con i musicisti e le sonorità metal e hardcore, perfetto complemento della tensione che tiene unite e coese le canzoni.

Poi si siede al centro del palco, accanto al suo chitarrista con l’acustica in braccio.
Chiama sul palco una ragazza e un ragazzo un ragazzo, i suoni si addolciscono, l’incalzare delle rime e dei testi si fa più rarefatto, lieve e dilatato: è ‘Parlami‘.
Forse attraverso la relazione si può trovare la forza di essere sé stessi, nonostante la complicazione di aver scelto di essere diversi.
Arriva la poesia e il lirismo di ‘Dopo l’Aurora‘, la sete di Vita, mentre le immagini del video ufficiale scorrono sul megascreen.
Il saluto al pubblico è con i musicisti in piedi ai lati, lui al centro in ginocchio a formare un triangolo geometrico. 
La risoluzione della dualità attraverso l’individuazione di un terzo punto, una terza dimensione, la sintesi di tesi e antitesi.
Lo scorgere un punto trascendente e sovraordinato agli opposti che ci permetta di uscire dal dilemma senza fine della doppia alternativa che non lascia vera libertà.
Solo così si può uscire dalla dualità, sanando la spaccatura e placando la nostra incessante, compulsiva, disperata sete.
Sete di oblio.
Sete di incoscienza.
Sete che provo a placare con il dj set di SG Lewis al Freedome.
Il giorno dei rapper finisce così.

Budapest, 14/08/2023

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© Giulio Paravani

Macklemore

Lazza

Mezzosangue

Lorde

Caroline Polacheck

Meganoidi

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