Sziget Festival 2023 | Day 04 | Mumford and Sons
Scialla, parola arrivata a meritarsi circa centocinquanta righe di approfondimento nella pagina dell’Accademia della Crusca, si guadagna gli onori di copertina.
Dopo il frullato cerebro-timpanico-sinaptico-emotivo di ieri, è la parola d’ordine odierna. L’appuntamento per l’intervista del giorno è alle venti e quindici e quindi colazione con calma allo Starbucks di zona.
I cappuccini sono preparati con precisione chirurgica e lentezza che al confronto Jorge Andrade era Usain Bolt.
Poi, sempre scialla verso l’isola di Obuda, seconda botta di vita in taxi e prima botta di caldo da quando sto qui (sbagliare l’abbigliamento non era quotato).
Il Press Center è abbastanza affollato, trovo un posto, recupero arretrati di scrittura e poi quelli di fame.
La ragazza di uno dei millanta e millanta stand di street food mi chiede come mai non ho ancora provato i gamberi pastellati fritti, limitandomi solo a calamari e merluzzo.
Le do appuntamento al giorno successivo, fortunatamente non ho analisi in programma al ritorno a Roma.
Non ora, ma avrò modo di raccontarvi anche il cibo allo Sziget.
Sempre scialla, e allora passeggiata alla scoperta di angoli di Sziget rimasti ancora fuori dal mio radar.
Mi affaccio sul palco del Music Box – uno dei quasi sessanta presenti qui – dove stanno per esibirsi gli Amistat, opening di Tash Sultana nel suo concerto in Cavea a Roma (per leggere il report clicca qui, ndr).
Josef e Jan Prasil, fratelli tedeschi, cresciuti in Italia e trasferitisi in Australa: indie folk, due voci, chitarra acustica, tastiere, ai quali stavolta si aggiunge un turnista alla batteria e al violino.
Il palco affaccia su un enorme spazio verde, l’atmosfera è rilassata e bucolica, gli spettatori adagiati sull’erba – chi in chillout, chi in relax se non fosse per… la techno sparata dal Colosseum.
I ragazzi la prendono in linea con la mia giornata; è scialla anche per loro e la portano a casa con serenità.
Continuo a passeggiare, entro nel Colosseum.
È un’enorme arena, la cui forma è tutta nel nome che le hanno dato.
Interamente costruita con pallet impilati e incastrati l’uno sull’altro, pompa techno a partire dal mattino.
È ancora praticabile in termini di affollamento e prende bene, almeno per il primo quarto d’ora: l’energia è positiva, le vibes (chiedo perdono per la seconda volta in quattro giorni) sono rilassate (stai a vedere cosa mi sono perso per decenni…).
Rimarrei, ma i quindici minuti sono scaduti e la curiosità mi fa veleggiare all’interno del tendone del Freedom dove è da poco iniziato il set di Baby Queen. Non sarebbe lo Sziget però se strada facendo non intercettassi i suoni provenienti dall’ennesimo palco, stavolta il Dropyard.
Spazio multifunzionale, alle dieci del mattino ospita il risveglio yoga, la notte diventa discoteca black o giù di lì.
Adesso, invece, fa da cornice al live Damien, cantautore spagnolo, proveniente da Tenerife che tiene banco con il suo pop/lo-fi ed il primo autotune che ascolto in quattro giorni.
Non sarà l’ultimo.
Ne parleremo domani.
Baby Queen sta dando fondo a tutte le sue energie sotto il caldissimo tendone del Freedom Dome.
All’anagrafe Arabella Latham, ventisei anni tra sei giorni, sudafricana di Durban, a diciotto anni abbandona famiglia, certezze e abitudini e si trasferisce a Londra, dove nasce e cresce artisticamente.
Telecaster rosa e gigantesca corona luminosa roteante a fondopalco, il suo è un indie e alternative pop in salsa rosa Barbie, sintonica con i tempi, con tanto di bolle di sapone che qualcuno o qualcosa soffia a migliaia alla sinistra del palco.
Energia da vendere.
Lei cita tra le sue ispirazioni Madonna, Lady Gaga, anche se quelli come me hanno avuto tempo di vedere Debbie Harry, mentre chiama in causa Taylor Swift per quanto riguarda l’aspetto musicale.
La sua vocalità e il suo modo di affrontare il palco e di entrare in relazione con il pubblico e i fan durante i live, me la avvicinano più a Cindy Lauper. Dubito leggerà mai queste parole, ma non si può mai sapere – in caso, spero mi perdoni i paragoni con artiste della mia adolescenza.
A questo punto non resta che attendere il suo prossimo album, “Quarter Life Crisis”, in uscita nel prossimo autunno, che stando alle sue parole, nasce dopo un profondo viaggio e travaglio interiore.
Gli incontri che non ti aspetti davanti all’Ibis x All Europe Stage, intervista nel backstage con Gio Evan (clicca qui per l’intervista, ndr), birra offerta dalla produzione e unico appuntamento della giornata al Main Stage per il set di Mumford and Sons.
Ho modo di considerare quanto la musica preconcerto sia ampiamente sottovalutata: crea contesto, accoglie, costruisce la giusta disposizione per l’esperienza emotiva prossima a venire. I Franz Ferdinand e Aretha Franklyn in questo caso lasciano pochi desideri inespressi.
Poi alle 21.20 le prime note.
Marcus Mumford, chitarra, voce e batteria – nei dischi -, Ted Dwane basso e contrabbasso, Ben Lovett organo, tastiere: tornano in tour quattro anni dopo l’uscita di “Delta”, ultimo e controverso lavoro (troppo commerciale secondo parte della critica) e due anni dopo l’addio di Winston Marshall.
La presenza sul palco dello Sziget mette a tacere definitivamente le voci che di scioglimento della band, che avevano preso sempre più corpo anche in conseguenza dell’uscita del primo lavoro singolo del loro frontman.
Partono forte e partono bene, con i primi tre brani: ‘Babel‘, ‘Little Lione Man‘ e ‘Roll Away Your Stone‘.
I suoni e il mood sono quelli che li hanno caratterizzati dagli inizi e portati al successo nel mondo: folk rock con influenze bluegrass, grazie anche alla presenza sul palco del banjo.
Partono alla grande, poi in scaletta arrivano brani più pop e si perdono il pubblico non composto dai fan più affezionati e sfegatati: si perdono un po’ anche me.
Poi fortunatamente è il turno di ‘Ghost That We Knew‘, luci basse, lirismo, un brano che arriva e parla al cuore e finalmente ci riprendono: da lì in poi il decollo.
‘Believe‘ è il brano d’impatto che serve per conferire la giusta e definitiva potenza per lo stacco da terra.
Solo di Stratocaster carica di overdrive e un tocco di eco e riverbero, sopra rullate sui timpani e Marcus Mumford che scende anche lui tra il pubblico ad abbracciare e stringere mani.
Torna sul palco per il momento di interazione: «È il Festival più internazionale al quale abbia mai partecipato».
Conta le bandiere – brasiliana, irlandese e italiana – e ride di gusto quando la regia ne inquadra una che dice «Be my daddy».
Ricorda poi il loro sostegno a War Child, organizzazione non governativa che fornisce sostegno e assistenza ai bambini nelle aree di conflitto e torna alla batteria nell’incalzante ‘Dust Bowl Dance‘.
Poi nuovamente un passaggio a vuoto con ‘Delta‘, title track della loro ultima uscita, della quale salvo solo l’effetto dei laser blu e dell’effetto mare per il quale ho un debole dal concerto dei Pink Floyd del 1988 al Flaminio di Roma.
La cascata di fuoco alla fine di ‘The Wolf‘ chiude la prima parte del concerto.
Nel bis la splendida esecuzione di ‘Awake My Soul‘, introduzione con arpeggio di chitarra rezofonica, intensa, profonda, bella.
E poi quella che tutti (ma proprio tutti) aspettavano, ‘I Will Wait‘, mentre qualcuno tra i fan chiede «please drumstick» al batterista.
Conclusione: la sensazione è che talvolta vogliano scrollarsi di dosso l’etichetta di band folk strizzando l’occhio al pop e al commerciale, ma non è nelle loro corde: risultano forzati, poco naturali e perdono lo smalto, la sincerità, la naturalezza dell’essere travolgenti.
Elementi che riacquistano immediatamente quando tornano alle loro origini e alla loro essenza.
Non sono generazionali.
Troppo caratterizzati per esserlo e perché nella loro musica possa riconoscersi una intera generazione di teenagers o poco più.
Non hanno l’hype testosteronico degli Imagine Dragons, né il carisma esoterico di Florence Welch.
Non hanno nemmeno gli effetti speciali mastodontici e i bassi di Guetta.
Non corrono come forsennati sulla passerella, non indossano outfit particolari e non rilasciano dichiarazioni provocatorie, motivo alla base dell’addio di Winston Marshall.
Protagonista è la musica, la tradizione – più celtico/irlandese che non made in USA – e per chi, come me, chi a vent’anni si riduceva a brandelli ballando i Pogues e adorava Mike Scott e i Waterboys, è una pacchia.
Intanto nella chat italiana dello Sziget una partecipante dichiara di avere Lazza nel suo hotel e si scatena il finimondo.
Niente pettegolezzi, sebbene l’ora notturna si possa prestare.
Ne parleremo domani.
Raggiungo il palco Ibis All x Europe per Gio Evan.
E vado in crisi, perché il ragazzo è simpatico, gentile, ma… nell’intervista da poco concessami, si è raccontato come un solitario, cosa di fatto piuttosto comune tra le persone che vivono su un palco e sotto i riflettori.
Ma il suo live non mi convince.
Come molti timidi, salta e corre da una parte all’altra della scena come un folletto mandando baci sonori al microfono.
Uno stuolo di giovanissime ragazze italiane alla transenna, una band con batteria, basso, chitarra, tastiere ed elettronica.
Un mix di elettronica, hip hop e arrangiamenti che mi richiama alla memoria suoni italiani dei primi anni ’80 (qualcuno si ricorda ‘Oceania‘ di Mario Castelnuovo?) come in ‘Mantra Allegro‘, espliciti omaggi come in ‘Carrà‘, o alchimie sudamericane come nello strumentale della band di metà concerto.
I testi hanno giochi di parole interessanti e andrebbero anche letti con una certa attenzione.
Cosa non mi convince allora?
Ahimè, non è un cantante.
La voce è sempre, o quasi, sovrastata dagli altri strumenti e questo penalizza la sua esibizione, almeno stasera.
Mi piacerebbe rivederlo in un’altra situazione.
È mezzanotte, finalmente si torna a casa.
Nemmeno per idea se sei allo Sziget.
«Venite che c’è un concerto splendido sempre all’Ibis Europe Stage», recita il messaggio di Sara, collega di sala stampa, entusiasta come tutti qui.
Ha ragione, è Baasch cantautore pop elettronico polacco, voce filtrata da delay e riverberi, basi elettroniche potenti, batteria.
Secondo il format oggi che sembra garantire successo – e magari anche risparmi sui costi del tour in tempi di vacche magre.
C’è qualità, secondo Sara se si sciogliesse di più con il corpo si mangerebbe il palco; io mi chiedo se invece il suo contenere l’esuberanza fisica non sia cosa studiata: lo star fermo mi comunica padronanza della situazione e centratura.
Probabilmente sarà l’unica volta che lo vedrò live, ma lo ricorderò con piacere.
E lo ascolterò.
Finalmente ripos…macché.
Sul Petofi Stage, il palco dedicato alla musica folk ungherese, suonano gli Au Revoir.
Spero di non confondermi, ma sul palco mi sembrano in undici: batteria percussioni, contrabbasso, due chitarre, due violini, basso, mandolino, sax, tastiere e fisarmonica.
Superfluo dire cosa stanno combinando.
Dietro di me un viso alla Kusturica sorride serafico, manca solo lo Slivovitz.
Con amiche ed amici ci buttiamo in mezzo.
Ce la faremo anche stasera.