Oca Nera Rock

Turn ON Music

Sziget Festival 2023 | Day 03 | David Guetta

Tachipirina mille la sera, poi dormi, hai freddo: non è febbre ma la finestra aperta.
Risveglio, imprechi e la chiudi, apple pie e caffè.
Tardi, chiudi il pezzo.
Il tuo compagno di avventura che intanto esce e poi ti avvisa che si sta facendo tardi e si dirige al Festival.
Tu che hai appuntamento per un’intervista, ma prima per il live di chi intervisterai, ti accorgi di aver shiftato tutto di un’ora avanti.
E infatti ora è tardissimo.
Ti butti in doccia e realizzi che nemmeno l’autobus preso al volo ti farebbe arrivare in orario, ma un taxi sì.
Lo chiami con la app, ti ci fiondi dentro.
«Hai visto qualcosa di Budapest?», mi chiederanno.
«Stocazzo», risponderò.

Il tassista è timido, ma mi tira fuori dal cilindro gli Ac/Dc all’altezza della punta meridionale dell’Isola Margherita.
«Great Music», dici tu, mentre lui risponde alzando il volume.
Provano a fermarlo due ragazze dirette al festival, fa loro segno di essere già occupato, da me: non è il suo giorno fortunato nonostante Angus Young.

Corro contro il tempo e stavolta vinco, senza cadere come Dorando Pietri.
Sul Light Stage ci sono gli Extraliscio, nel bel mezzo di un minitour de force che da Budapest li vedrà ad Ariano Irpino e successivamente tornare nell’est europa, stavolta a Bucarest.
Per l’occasione sono accompagnati dalla loro manager, Elisabetta Sgarbi.

Extraliscio

Punk da balera, e così sia.
In cinque sul palco: basso Niccolò Scalabrin, batteria Gaetano Alfonsi, elettronica/programmazione/piano elettrico Mattia Dallara, fisarmonica Enrico Milli, voce Mirco Mariani.
Primo pezzo di apertura, brivido: omaggio a Franco Battiato, ‘Vorrei Vederti Danzare‘.
Desiderio esaudito immantinente: tutta l’energia di Mirco Mariani, il vocalist e frontman – nonché batterista di Vinicio Capossela – si contagia esponenzialmente.
Ma c’è un problema: Mirco non conosce una parola d’inglese e due minuti prima di salire on stage ferma Mattia, suo compagno di band, per inventarsi una traduzione simultanea in tempo reale.
Colpo di genio. la positività magnetica della Romagna sbaraglia qualsiasi concorrenza.
Così, lo spazio antistante al palco si riempie di ragazze e ragazzi di ogni parte del mondo, proprio come per i Savana Funk il giorno precedente.
I Love Vita‘, stando al racconto di Mirco, pezzo scritto sul van durante l’avvicinamento a Budapest, potrebbe essere il manifesto programmatico della band e della regione tutta.
Arriva il momento della poesia con il fisarmonicista Enrico Milli a declamare un tradizionale del casentino, questo assolutamente intraducibile in lingua d’Albione, e poi ancora danze con il tradizionale Gam Gam.
La Romagna e le alte Marche sono terra di fisarmonicisti e di liutai, Mirco imbraccia una dodici corde elettrica di liuteria e devasta il finale di ‘È Bello Perdersi Nel Mondo‘ con esplosione feedback.
La chitarra gli resta a tracolla, l’overdrive aperto a dovere e in tutta la sua drammaticità immancabile ‘Romagna Mia‘ in doppia versione, per chitarra sola e versione technoliscio.
Poi è Rimini anni ’60 con ‘Onda del Mar‘.
«Siamo venuti per farvi far ginnastica. Ci hanno detto che il festival è meraviglioso, ma c’è gente un po’ in carne e quindi…».

Guardo le ragazze ballare il twist e mi riprometto di chiedere loro, nell’intervista, quale possa essere il segreto di questa terra di passione, calore.
Non so ancora che sarà Federico Fellini a darmi la risposta per bocca di Mirco – se volete saperlo anche voi, l’intervista la trovate qui.
In chiusura il pezzo che li ha resi noti al grande pubblico, ‘Bianca Luce Nera‘, scritto insieme a Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti e presentato al festival di Sanremo del 2021.
La musica continua a essere un invito ad abbracciarsi e ad amarsi e questo accade.
No, c’è un ultimo pezzo.
Molti anni fa Elisabetta Sgarbi trascorse un periodo di vacanza a Budapest con Franco Battiato: per questo l’apertura con Battiato, per questo chiudono come avevano iniziato – un bis, ‘Voglio Vederti Danzare‘.
Intanto ho da venti minuti lasciato laptop e zaino in custodia a due ragazzi del palco, ballo e mi unisco ad un abbraccio collettivo.
E qui ripeto il mantra del mio Sziget Festival 2023: ecco a che serve la Musica.

Szitizens dello Sziget Festival 2023 – Giulio Marino a destra, con gli occhiali da sole e i capelli ricci raccolti in una coda.

Mi ero ripromesso, tra le mille proposte del festival, di ascoltare qualche band del posto.
L’occasione arriva con i Jazzbois, trio ungherese formato da Viktor Sàgi al basso, Bencse Molnàr alle tastiere e Tamas Czirjiàk alla batteria, cui si aggiunge per l’occasione Domneats al sax tenore e al flauto.
Nello stesso enorme tendone in cui due notti fa si è esibito Bonobo, portano la loro musica: una sintesi di elettronica, jazz, funky e low fi.
Dopo due giorni pieni, tirati, senza sosta e pause è quello che ci vuole.

Menzione per il loro light show psichedelico, con immagini che sembrano pesci di plastilina colorata che nuotano nella corrente di un fiume e fanno venir voglia di impiastricciarsi mani, faccia e di mangiarla anche.
I pesci diventano funghi, il mio cervello decide di seguire un flusso fatto di interminabili cavalcate modali e ipnotiche con ostinato di basso e capriole di sassofono con tocchi di piano elettrico e synth analogici.
Altri pezzi invece hanno un taglio funky jazz, sincopati e con spostamenti d’accacceni che si spostano che li rendono piacevolmente sghembi.
I ragazzi presenti tra il pubblico (tutti molto giovani) seguono l’andamento con naturalezza.
Un tornasole della bravura di una band: la gente che inizia a ballare anche i tempi dispari o i groove obliqui.
E comunque, i Jazzbois si lasciano ascoltare piuttosto bene.
La chiusura è un viaggio in Sudamerica e qualcosa mi dice che ragazzi abbiano divorato e digerito bene gli Azymuth (per chi è nato prima del 1980, quelli della sigla di Mixer).

Jazzbois

Oggi si corre, di tutto quello che gira intorno al festival parleremo al momento opportuno.
Per ora solo il tempo di mangiare la prima cosa che trovo, fiondarmi al press centre, iniziare a scrivere ciò che ora voi state comodamente leggendo e poi via per uno degli appuntamenti clou del giorno.

Già, perché alle venti al posto del Telegiornale abbiamo Vinicio Capossela, sul palco del Global Village, fresco di Targa Tenco – la quarta – con il suo “Tredici Canzoni Urgenti”.
Lasciamo che a parlare sia l’artista irpino nato in Germania: «Sono canzoni che riguardano un mondo irragionevole e in fase di trasformazione. Viviamo un’epoca fatta di emergenze civili, umanitarie, sessiste, fasciste, xenofobe, ambientali. Siccome sono le emergenze a muoverci a qualche forma di reazione, l’urgenza di questi brani è la risposta all’atomizzazione della società che oggi sembra ridotta all’individuo, persino se si parla di istituzioni o di geopolitica».

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è un concerto promozionale.
Le canzoni del live estratte dal neonato – e neopremiato – lavoro sono tre, consecutive e concentrate nella prima parte dello show.
Brucia Troia‘ è il brano prescelto per aprire le danze, da un passato nemmeno più troppo recente.
Capossela si presenta con una maglietta che ricorda che la prima immigrazione illegale del mondo è avvenuta nel 1492 ma a colpire sono la maschera demoniaca da capro che porta in testa e i campanacci che agita.
A scopo autoesorcistico? Ah, saperlo…

Vinicio Capossela

La band è abbastanza classica, due chitarre elettriche, contrabbasso e batteria; dietro a questa siede Mirco Mariani, reduce dall’esibizione di quattro ore prima con gli Extraliscio.
Dopo ‘Brucia Troia‘ segue il surf con le chitarre anni ’60 di ‘Nuove Tentazioni di Sant’Antonio‘, poi spazio al nuovo disco.
La Parte del Torto‘ apre il trittico di “Tredici Canzoni Urgenti”, la dedica è per Michela Murgia, scomparsa ieri.
«E se sei razzista, se sei sessista che problema c’è? Dalla parte del torto. Detassati e ignoranti, egoisti e opportunisti. Tutti a cuor contento dalla parte del torto. Tutti brutti e sinceri quando saremo tanti, quando saremo veri dalla parte del torto».
Parole incise nella pietra, incorniciate in un arrangiamento country folk.
Torna poi al primo amore, il pianoforte, e con esso torna protagonista il jazz con ‘All You Can Eat‘.
Stordimento da compulsione bulimica al consumo low cost, al divorare il pianeta senza limite alcuno; la quantità che anestetizza la qualità, l’ostentazione e la regola del “troppo” e dell’accumulo, magari stravaccati ‘Sul (nostro) divano cccidentale‘ ad ammirare lo spettacolo delle guerre in tempo reale e a dissertare di resilienza.
Ma se Capossela canta di «mio sedere sul tuo sedere», non sono sedentari i ragazzi che sono accorsi ad acclamarlo: la pedana di legno dell’area antistante al palco si flette pericolosamente in risposta ai loro salti e danze.
Chiuso il capitolo del nuovo disco, le danze balcaniche diventano protagonista con ‘Marajà Marajà‘.

Le danze diventano definitivamente protagoniste nella seconda parte del concerto al suono dell’organetto.
Contratto per Karelias‘ è un salto nel passato più ampio del precedente, ‘Ultimo Amore‘ porta suoni da isole lontane e una lontana chitarra dal sapore hawaiano.
Senza preavviso, come per decisione di uno spirito sovrannaturale, si forma un gigantesco cerchio di corpi, carne, sangue e sudore: un incantesimo, un sortilegio, una trance collettiva, liberatoria, che balla il tempo in sette ottavi del cantato, che diventa in sei nei passaggi tra le strofe.
Impossibile da ballare in condizioni normali, immediato se, come accade ora, si lascia l’intelligenza del corpo libera dai freni della coscienza e il sistema limbico prevale sulle aree cerebrali di più recente formazione.
La magia della musica popolare contadina, saperi arcaici sopravvissuti nei millenni, residenti in quiescenza negli angoli più polverosi e bui della nostra psiche, pronti a risvegliarsi se innescati dalla giusta reazione enzimatica.
Se gli enzimi sono i catalizzatori delle reazioni biologiche che avvengono nel nostro organismo, allora capisco tutto: Vinicio Capossela è l’enzima psichico di liberazione e trascendenza.
A tradimento arriva ‘Il Ballo di San Vito‘, come accaduto poche ore prima, butto laptop e zaino da una parte e mi lancio a danzare nel fuoco del demonio: Vinicio sembra leggermi l’anima e sulla coda del pezzo indossa nuovamente la maschera del caprone.
Quando sembra che tutto non sia altro che un sabba, finisce in poesia, protezione e preghiera.
Ci saluta con ‘Ovunque Proteggi‘, perché finiscono gli amori, non la loro energia che ci accompagna e ci mantiene accesa la grazia del cuore per l’eternità.
Fur immer und immer.
In saecula saeculorum.

Ho perso in parte cognizione di tempo e spazio, la riacquisto passando davanti al tendone del Freedom Dome.
I suoni che ne escono mi titillano le interiora: sono i Jungle By Night, olandesi, interessanti e da approfondire.
Ma non ora.

Jungle By Night

Ora nel Main Stage è il turno di David Guetta.
Due Grammy Awards, quindici miliardi di streaming, cinquanta milioni di dischi venduti, centinaia di collaborazioni, una più prestigiosa dell’altra. Laser da far impallidire i Pink Floyd, un impianto da far tremare i polsi ai Rammstein.
I bassi complicano la vita ai fotografi nel pit, rendendo complicato anche solo tenere la macchina ben ferma in mano.
Folla oceanica delirante, cinquantamila?
Può darsi, anche se con Giulio, che è nel pit per fare le sue solite foto pazzesche, abbiamo il fondato dubbio che gli Imagine Dragons abbiano fatto più presenze.
Dalla regia da Roma mi suggeriscono come possibile e plausibile spiegazione la recente separazione di Dan Reynolds dalla moglie.

E comunque cosa c’entro io con David Guetta, che a vent’anni in discoteca ero il classico tipo da tappezzeria?
Niente.
Per cui mi fermo qui e vi invito a godervi invece la fotogallery che sicuramente vi dirà di più di quello che avrei potuto raccontarvi io.
E poi la serata è ancora lunga e già sento nell’aria i profumi del Golfo di Guinea arrivare dal palco del Global Village.

David Guetta

Diversi anni fa, Robert Plant  partecipò a una nota trasmissione televisiva italiana.
A precisa domanda su quali fossero le sue band preferite, nrispose senza esitazione: «In Africa c’è una musica incredibile. Ci sono delle band del Mali meravigliose. È la musica del futuro».

E indovinate un po’ da dove vengono i Bamba Wassoulou Groove?
Quintetto con doppia chitarra, basso, batteria e voce, che sul palco dove due ore prima terminava la sua performance Vinicio Capossela, hanno il difficile compito di riportare il pubblico, assente dopo la pausa di due ore contemporanea al set di Guetta.
Ci riescono in due minuti: questo è ciò che intendo per black power.

Il mio amore per la musica africana è storia relativamente recente.
Musica terapeutica, guarisce dalla depressione, purifica, libera, scaccia gli spiriti maligni dalla vita delle persone.
Ostinati di cellule ritmico-melodiche delle chitarre ostinate, con impercettibili microvariazioni che il cervello rettiliano riconosce immediatamente.
I chitarristi imbracciano due Les Paul, amplificate Febder e Roland.
Ascoltandoli è evidente l’origine dell’ispirazione dei Talking Heads di “Remain In Light” e dei King Crimson di “Discipline” (si ascolti l’omonima traccia).
Sensualità, ballo, spiriti della terra e del deserto, connessione con l’Anima del mondo, elevazione attraverso il risveglio dei chakra terreni.
Ogni volta che tra le note respiro la sabbia del deserto e il ghibli, mi risuonano internamente le parole di Joushua Idehen a conclusione di “Black to The Future”, ultimo e definitivo lavoro dei Sons of Kemet: «questa lotta nera è danza».
E balla la band sul palco, balla la loro crew balliamo noi che proveniamo da ogni parte del mondo, percorsi da una scarica elettrica di intensità crescente.
È una rivoluzione che utilizza il corpo, la gioia come uniche, e potenti, armi, portatrice di cambiamento universale.
Un esperanto somatico che annulla qualsiasi barriera generazionale, culturale, linguistica.
Ecco perché amo la musica dell’Africa, ecco a cosa serve la Musica del Sud del mondo.

Bamba Wassoulou Groove

Pensi di aver terminato mentre ti rilassi stravaccato bevendo una assurda bevanda al sapore di limone al “vippaio” del Magic Mirror, poi apri l’app del festival.
Errore da non fare, allo Sziget: perché suonano i Moderat, nel gigantesco Freedom Dome.
Prendo l’ultima bustina di Atp.

Mi immergo nel flusso di energie, in un vortice del Lete, il fiume dell’oblio.
Entrare in connessione con le migliaia di persone presenti: il trio berlinese, formato da Sascha Ring, Gernot Bronsert e Sebastian Szarzy, trasforma il molteplice in uno.
Un solo organismo, un solo respiro, un solo grande battito scandito dalla loro musica.
Un fare l’amore senza sesso, senza corpo, senza Io.
Mentre ascolto, alterno i miei occhi tra il light show e Telegram, dove leggo digressioni sulla teoria degli ectoplasmi, le protesi emozionali, la teoria di Baron Cohen sulla mente autistica.
Vivo un film delle sorelle Wachowski, sommerso da suoni che mi evocano malinconie apocalittiche.
In migliaia sotto al gigantesco tendone siamo reduci di Zion, adepti iniziati ad antichi misteri, o semplicemente fortunati cazzoni che si trovano nel posto giusto al momento giusto.

Moderat

Non ce ne importa nulla, godiamo semplicemente dell’essere stati prescelti per questo rito di fusione collettiva.
Un tappeto volante di suono cremoso e vaporoso, color pastello, ci accompagna alla conclusione del loro live set: è un brano che quarant’anni fa sarebbe stato sicuramente scritto da Giorgio Moroder.
Il suono è una forma di vita intelligente, un’intelligenza artificiale che riconosce o anticipa le tue emozioni, e decide nel momento presente se manipolarle o assecondarle.
Emozioni che porto con me fin quando l’ultimo barlume di coscienza decide di abbandonare temporaneamente questa realtà.

Non so come ma sono rientrato in stanza.
Salgo le scale che mi portano al letto.
Domani si ricomincia, forse non si è mai finito.

Budapest, 12/08/2023

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© Giulio Paravani

David Guetta

Moderat

Bamba Wassoulou Groove

Mimi Webb

Vinicio Capossela

Extraliscio

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