Sziget Festival 2023 | Day 02 | Imagine Dragons
Giornata pienissima: oggi parliamo solo di musica.
Si apre con il live dei Palmaria, un duo che è una boccata di ossigeno per chi si augura, prima o poi, un’apertura della musica italiana al resto del mondo.
Giulia Magnani e Francesco Drovandi sono due ragazzi liguri che fanno musica, si incontrano, decidono di proseguire insieme e lasciano la baia di Lerici – alla quale devono il loro nome – e si trasferiscono a Londra.
Da qui la loro storia prende il volo.
Arrivano i primi lavori, i primi tour e i primi riconoscimenti di critica e pubblico.
La loro musica è descritta come Hypno Pop, la mia naturale curiosità è stimolata, accelero il passo sul viale che porta sul palco.
La voce di Giulia è una piuma capricciosa.
Mi riporta in realtà a un tempo che fu, quando una band chiamata Cocteau Twins con la voce di Elizabeth Fraser incantava il mondo.
Mi sentirò molto vecchio quando, un’ora dopo, Giulia mi dirà di non conoscerla.
Mi sentirò leggermente meno vecchio quando dirà di avere apprezzato molto la sua performance vocale – della Fraser – in un brano dei Massive Attack, citandola come fonte di ispirazione.
La Fender liquida, aperta, cristallina e carezzevole di Francesco segue Giulia negli arabeschi melodici e avvolge le pieghe del suo gonnellino scozzese con il quale si è presentata sul palco.
È bello sentire una band italiana esprimersi correntemente in inglese e alternare brani nell’idioma di Albione con quelli in lingua madre.
Le canzoni dei Palmaria sono l’ideale per un abbraccio al mondo dopo una nottata come quella che immagino abbiano trascorso qui allo Sziget Village.
La ragazza che accanto a me, scalza, in vestito e capelli rossi, abbandonata sul prato come una principessa vittima di un incantesimo, è la perfetta immagine a complemento.
Soavità, leggerezza, atmosfere eteree, uso intelligente e creativo di loop ed elettronica ne fanno una band da seguire.
Si stanno riavvicinando all’Italia, sentiremo parlare di loro (clicca qui per vedere su Instagram la videointervista a Giulia dei Palmaria, ndr).
Prima di proseguire però devo ammettere di aver trasgredito, per la prima volta in quarant’anni, alla regola numero due del manuale del perfetto spettatore di concerti e festival rock: non si va mai al concerto di una band con la maglietta della stessa band.
L’ho fatto per loro, perché chi mi conosce – e magari qualcuno che non ha molto da fare e legge talvolta le cose che scrivo – sa quanto li apprezzi come musicisti e come persone.
L’ho fatto per i Savana Funk.
Nel bel mezzo di un tour estivo infinito, o forse di un tour infinito e basta, la band bolognese fa tappa allo Sziget Festival… e fa il panico, come sempre.
Inizia la voce di Youssef Ait Bouazza alla batteria, per dare il kick off al live, con l’unico brano del loro set che prevede la presenza di suoni umani: ‘Fuga da Gorèe‘.
La dimensione live esalta appieno il loro sound, caldo, potente e portatore di un irrefrenabile istinto ad abbandonarsi in danze sfrenate.
I groove trascinanti che nascono dall’incastro perfetto di batteria con il basso di Blake Franchetto, che modellano ritmi afromediterranei, architrave sonoro della band.
La Stratocaster di Aldo Betto talvolta raccoglie il mood afro, a volte lascia partire scudisciate rock, come nell’intermezzo solita, altre volte ancora si apre ad atmosfere e colori del mondo hendrixiano psichedelico.
In pochi secondi lo spazio antistante allo stage si riempie di pubblico che crea con la band un gioco di specchi energetico che si autoalimenta quasi fosse un effetto larsen.
Arriva ‘Ghibli‘, e i suoni del Marocco, poi ‘Il ghepardo’, brano in cui l’Hendrix di ‘Third Stone From The Sun‘, improvvisamente si risolve in soluzioni armoniche di stampo morriconiano.
I tre musicisti si guardano, sorridono tra loro e al pubblico – «ci vogliamo bene», dirà Aldo in uno scambio di battute successivo alla performance. Arriva ‘Lipari‘, altro classico del loro ultimo lavoro, con i suoni del Mare Nostrum e il gusto inconfondibile che hanno per la melodia.
A finire con un funky infinito che ha l’effetto di una scarica di adrenalina e poi chiusura a modo loro, con il canto all’unisono del pubblico, il lancio di magliette dal palco.
Poi giù di corsa ad abbracciare, salutare e far festa con chi è venuto a ballare per loro e con loro.
Mi giro e vedo due ragazze, molto giovani, la maglietta del festival indosso.
La prima volta allo Sziget proprio con i Savana Funk.
La felicità nei loro occhi, la felicità nei miei.
Poi una videointervista che è soprattutto parole, sorrisi, abbracci tra amici (clicca qui per vederla su Instagram, ndr).
Ecco a cosa serve la Musica.
Conoscete Yungblud?
Immagino la maggior parte di voi no, ma sarebbe interessante fare una statistica sulla sua popolarità tra gli under 25 italiani, i risultati sarebbero comunque interessanti in un senso o nell’altro.
Intanto a Budapest mette insieme diverse decine di migliaia di ragazze e ragazzi di ogni nazionalità che conoscono a memoria le sue canzoni. All’anagrafe Dominic Richard Harrison, nasce nello Yorkshire all’età di due anni prende in mano una chitarra dal negozio di strumenti del papà e da quel momento tutto ha inizio.
A dieci anni riceve una diagnosi di ADHD, disturbo dell’attenzione e da iperattività, e questo me lo rende simpatico a priori.
Viene “curato” con il Ritalin.
La sua solitudine, il suo non riuscire a sentirsi compreso, trova nella musica la sola via di comunicazione con il mondo.
Inizia a comporre le prime canzoni a dieci anni di età: sono testi come macigni, brutalmente onesti; diversità e inclusione, pansessualità, poliamore e malattia mentale.
Parole che accolgono ansie e conflitti di una generazione intera.
Andatevi a leggere i titoli della setlist e se vi va buttate un occhio ai testi.
Intanto prendete nota: tre dischi, 7,6 milioni di ascoltatori mensili su Spotify, 4,5 milioni di follower su TikTok e visualizzazioni YouTube totali a nove cifre.
Appare qualche secondo prima di salire sul palco nei megascreen del Main Stage, poi eccolo: maglia nera con scritta “doll”, maniche a righe trasversali bianconere, pantaloni larghi sopra le ginocchia e calzettoni fucsia elettrico ben in evidenza.
Custodia del cellulare – almeno così mi pare – appesa alla cintura, borchiata, a forma di bara, con tanto di croce sopra.
Spilla da balia al lobo dell’orecchio destro, lucchetto al collo.
Tre «fuckin’» ogni sette parole.
La sua iperattività?
Andate a vedere la gallery di foto di Giulio.
Vi ricorda qualcuno?
Indizio: una sua canzone si intitola ‘Anarchist‘.
Parte cattivo, Yungblud: ‘The Funeral‘ è un pezzo punk con tutti crismi, con accenni surf.
Sembra attingere al serbatoio culturale dei suoi nonni, Ramones, Dead Kennedys.
Ma la band è giovanissima, power trio, batteria, chitarra, basso.
Dopo aver visto i Foals ieri, festeggio l’immancabile presenza della Fender Jazzmaster da parte delle band indie rock made in UK.
Festeggio ancor più quando vedo trentamila teen ager, o poco più, delirare per un solo hard rock.
Altre canzoni hanno colori pop (almeno per me), altre ancora strizzano l’occhio alla fratellanza Gallagher, soprattutto quando imbraccia la chitarra acustica e si abbandona alla melodia come in ‘Sweet Heroine‘, unico momento in cui si vedono migliaia di smartphone sollevati e con le torce accese. Sul palco ci sta da dio, non ho la sua età – no battute, please – ma empatizzo con lui.
ADHD o meno, sul palco è una molla: scatenato, una corsa continua che rende interessante il lavoro dei fotografi nel pit.
Sa fare show come pochi, parla lo stesso linguaggio dei suoi fan, nei testi, nei gesti, nei suoni butta fuori catarticamente tutto quello che lo divora internamente e che probabilmente divora parte dei suoi coetanei.
Scatena un pogo come non vedevo da tempo.
‘Medication‘ (il titolo parla chiaro) trascina l’intero Main Stage in un unico coro.
‘Low Life‘ è un inno generazionale.
Qualcuno dirà «eh, ma quarant’anni fa il punk, l’hard rock, cose già viste».
Ok, ma un ventenne oggi per quale star dovrebbe andare in visibilio?
Yungblud o i pallidi ricordi di band che, nella migliore delle ipotesi fossero ancora vivi, avrebbero l’età dei loro nonni?
Fa saltare quarantamila persone alzando un polverone e accade tutto come per magia: penso agli ultimi anni, a milioni di adolescenti chiusi in casa davanti a un device.
Pensieri banali? Probabile, ma a esser qui ora fa effetto.
Scende e abbraccia tutti i ragazzi delle prime file e fa salire dieci di loro a ballare e cantare insieme a lui durante ‘Loner‘ – anche qui il titolo parla chiaro –, altro inno generazionale.
Chiede a ciascuno di abbracciare la persona accanto.
Ho due righe per chiudere, devo semplificare: i nonni si sparavano in guerra, i genitori si sparavano in strada o alle assemblee scolastiche, i figli vincono il tabù della malattia mentale, delle diverse appartenenze di genere e si abbracciano.
Viva Yungblud.
Mezz’ora di relax, per modo di dire.
Tornando al centro stampa passo davanti ad un palco e l’energia che vi si sta scatenando sopra cattura la mia attenzione.
Si stanno esibendo gli Stain the Canvas.
Band italiana, milanese di formazione, aggressivi, potenti, con due album e un tour europeo alle spalle.
Ho il tempo di ascoltare una sola canzone, troppo poco per poter scrivere qualcosa.
Abbastanza per meritarsi la citazione qui e alcuni scatti di Giulio.
Band da tenere in considerazione e conoscere meglio.
Senza dubbio.
Circa sessantamila persone è la capienza stimata dell’area intorno al palco principale ma ho il fondato sospetto che possano essere ancora di più per gli Imagine Dragons.
Reduci dai settantamila del Circo Massimo di Roma, sono nel pieno del “Mercury World Tour”.
Milioni di spettatori, inutile pubblicarne il numero con le cifre in continua crescita.
Dan Reynolds frontman, Wayne Sermon chitarra, Ben McKee basso e Daniel Platzman alla batteria continuano a cavalcare la tigre impazzita.
Difficile conquistarsi un posto nelle prime file ma, grazie a un impianto come si deve, non impossibile vedere e sentire adeguatamente.
Pochi istanti prima dell’inizio del concerto ricevo un Whatsapp dalla regista occulta, ma non troppo, dell’operazione Sziget: non è il caso che ne riporti il contenuto, ma ha centrato il punto.
Lascio porte aperte alla vostra immaginazione.
Elegantemente, potremmo definire la band losangelina come l’evoluzione ultima delle boyband che hanno imparato a suonare, a scrivere e a costruirsi credibilità artistica, piacciano o meno.
Si parte con l’oscurità, sui megascreen e sul palco.
Poi improvvisa un’esplosione di luci e colori caldi.
Un immenso sole si accende quando appare Dan Reynolds sul palco, camicia e giacca.
Luci e coriandoli gialli sparati dai cannoni posti davanti al palco.
Durante ‘Believer‘, secondo pezzo, via la giacca: si sa già come andrà a finire e i fotografi nel pit sono prontissimi.
È pop allo stato puro, suonato bene da musicisti veri, in confezione extralusso e venduto a prezzi accessibili.
Melodie immediate, orecchiabili e cantabili da chiunque.
Passano per essere la band più odiata tra quelle mainstream ma ci sono illustri predecessori, snobbati e derisi dalla critica finché in attività, tra tutti penso i Led Zeppelin.
E sinceramente credo, e spero, che a loro importi poco.
Una macchina perfettamente oliata: show studiato in ogni dettaglio per mandare in brodo di giuggiole chiunque, senza differenza di sesso, età, provenienza geografica, segno zodiacale, tifo calcistico, preferenze a tavola.
E ciliegina sulla torta, una giacca che vola via durante ‘I’m So Sorry‘, guarda caso il quarto pezzo, per la “gioia” dei fotografi appena allontanati dal pit. E per la tempesta ormonale che si scatena intorno a me.
Scrivono canzoni perfette per innamorarsi: i feromoni sono i loro primi fan e assisto in diretta a un tentativo di rimorchio della strepitosa ragazza nigeriana che balla accanto a me da parte di un aitante quanto intraprendente colosso.
La ragazza declina con eleganza.
Il ragazzo che era con lei sorride.
Immagino la stessa situazione in Italia e sorrido anche io.
Non cercate il colpo di genio nei loro pezzi, si potrebbe restare delusi.
Sanno suonare e cantare molto bene, armonizzando con maestria le loro voci.
Nessuno chiedeva pezzi che facessero la storia della musica ai Duran Duran.
Nessuno li chiedeva nemmeno ai Beatles, almeno fino a ‘Help‘.
Hanno fatto impazzire generazioni, sapevano scrivere hit di successo a raffica e presentarsi bene.
Ma solo gli ultimi erano dei geni.
Eppure, chissà che non ci sia del genio anche nel saper scrivere decine di singoli che facciano impazzire mezzo mondo senza perdere un colpo.
Decidete voi.
Ammetto che non sarei mai andato a un loro live se avessi dovuto pagare – e se non mi riconoscessi una delle mie rare qualità – ma confesso, ora e per sempre: alcuni ritornelli li ho cantati anche io, de core.
Er core, ecco a che serve la musica
A proposito de core: i coriandoli giallorossi alla fine di ‘Thunder‘, chissà che non sia stato così anche al Circo Massimo.
Sarà difficile che possa accadere a breve di nuovo, me lo dico da solo, l’autoironia non mi fa difetto.
Se così non fosse, vedi sopra, non sarei qui e mi sarei perso i pettorali di Reynolds, e la ragazza che balla accanto a me.
Finisce il live e penso sia finita anche la mia giornata.
Mi sbagliavo, stavolta è il palco dedicato alla musica etnica a richiamare la mia attenzione approfittando della mia irresistibile e relativamente recente passione per la musica africana.
A suonare sono i Bantu Continua Uhuru Consciousness e arrivano dal Sudafrica.
Leggo di afro-psichedelia, ma lascia il tempo che trova.
Vedo soltanto sette colossi sul palco, voce, basso e percussioni, e un migliaio di persone in preda ai loro istinti scatenarsi e liberarsi, riequilibrando le loro energie psichiche e fisiche.
È ciò che amo della musica africana.
È ciò che amo della vita, passare in pochi secondi da Los Angeles a Soweto.
È ciò che sto amando dello Sziget.