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Sziget Festival 2023 | Day 01 | Florence + The Machine

Si comincia sul Light Stage, con il live set dello Studio Murena, progetto nato a Milano nel 2018 con la loro miscela sonora che attinge ai linguaggi dell’elettronica, del jazz e del rap.
Dopo l’esibizione dello scorso anno alla serata finale della Notte della Taranta di Melpignano, arrivano oggi allo Sziget Festival 2023 per il loro primo live fuori dai confini italiani, freschi di uscita di “WadiruM”, il loro ultimo album uscito lo scorso maggio.
Sono sei: batteria, basso, tastiere, chitarra elettrica, computer ed elettronica e rapper a schiacciare sopra la rete.
Decisamente interessante la loro proposta musicale che unisce elementi latini, afro, funky, jazz, elettronica e rap e che li ha segnalati come una delle novità più interessanti della scena musicale italiana.
Letti di tastiere, ambientazioni elettroniche, potente sezione ritmica, chitarre alla Metheny e graffio rap contaminato ed evoluto.
Ma sanno anche concedersi momenti più tirati e spacco, la conferma è la chiusura a omaggiare i RATM con citazione di ‘Killing in the Name‘.

Studio Murena

Subito dopo il primo assaggio di Main Stage.
Saluto con gioia gli enormi vaporizzatori di acqua che rinfrescano il pubblico e mi godo la fine della band olandese Son Mieux.
Lo Sziget è un’overdose sensoriale e sinestesica: i suoni dei palchi, i boati del pubblico, gli idiomi di ogni parte del mondo.
Mentre scrivo mi investe un torrente di ritmi africani provenienti dal Global Village.
I profumi dei tantissimi stand di cibo etnico e Jamaica sul palco regala ulteriore spessore alla potenza dei bassi della techno che arriva dalla Samsung Party Arena.
Ma soprattutto a colpire nel cuore è lo zampillio anarchico di colori: colorati i capelli e i glitter delle ragazze, colorate le magliette e le bandiere del festival e delle nazioni del mondo qui presenti.
Colorate di gioia i volti di chiunque si trovi a passare la giornata sull’Isola di Obuda, coloratissimi i vestiti del gruppo indiano che incrociamo lungo una delle strade principali e anche il light show dei Foals, fiori rosa, blu elettrico e rosso fuoco.

I Foals, appunto, il gruppo indie rock inglese formato da Yannis Philippakis  voce e chitarra, Jimmy Smith chitarra, Jack Bevan batteria ai quali sul palco si aggiungono basso elettrico e tastiere.
Seconda band sul mainstage ed è un flash immediato: se oggi esistesse ancora la band con cui suonavo venticinque anni fa, avrebbe lo stesso loro sound.
Arrivano sulla scia di cinque anni vissuti alla grande: il loro “Everything Not Saved Will Be Lost – Part Two” balzò in cima alle classifiche nel 2019 e consentì loro di vincere i Brit Awards come miglior gruppo britannico.
Il 2022 ha portato poi “Life is Yours”, relizzato con la produzione di John Hill (Florence + The Machine) e Dan Carey (Tame Impala e Fontaines Dc). Basta il primo colpo di batteria per avere certezza della loro qualità e resa sul palco.
Dal vivo la band conferma tutto il meglio che si diceva su di essa (già vincitori nel 2013 del Best Live Act del Regno Unito): grande fisicità, presenza scenica, suoni pieni e corposi.
Alcuni brani con chitarroni potenti e spruzzi di math rock, altri con maggiori influenze funky perfettamente disegnati per esaltare la voce di Philippakis, che fa impazzire security e tecnici con l’abituale – per lui – discesa fuori programma in mezzo al pubblico che i meno giovani tra i presenti – ovvero solo io – associano alla performance di Bono Vox nel 1985 a Wembley, durante il Live Aid.
Finisce in un’orgia sonora, decine di migliaia di ragazze e ragazzi saltare e godersi tutta l’adrenalina pompata dalle loro surrenali nel loro circolo ematico.
Io penso soltanto a una cosa: il rock gode di ottima salute…fuori dall’Italia.
Ma finché in Italia il pubblico batterà le mani sull’uno e sul tre, possiamo tranquillamente continuare a chiamare la morgue.

Foals

È tempo per il cocktail di benvenuto al centro stampa e poi nuovamente mainstage, per Florence + The Machine.
Musica per vecchi, vecchissimi, durante l’attesa: i Cure di “A Night Like This” e Bowie versione Ziggy Stardust con “Moonage Daydream” e uno dei più bei soli di chitarra di sempre.
Il voltaggio dell’energia psichica sale verso i limiti più alti.
Alle 21.15 precise, Florence Welch si presenta sul mainstage contornata da una scenografia che ricorda un castello e delle sculture di ghiaccio.
L’artista inglese trova nello Sziget il contesto di elezione per presentare “Dance Fever”, ultimo lavoro ispirato alla danza e dalla comunicazione corporea e beffardamente registrato durante il lockdown, quando tutto si poteva fare tranne che comunicare con il corpo.
Il suo modo di cantare si inserisce naturalmente nel solco tracciato dalle grandi voci femminili d’oltremanica: Kate Bush, Tori Amos, Siouxsie Sioux, Dolores O’ Riordan e la compianta Sinhead O’Connor.

Florence + The Machine

Ma è la sua presenza scenica a polarizzare l’attenzione e ipnotizzare la sterminata platea del main stage.
Il concetto di One Woman Band sarebbe più calzante.
Indossa una veste rosa, è scalza: in connessione immediata e diretta con le energie della terra, un ponte con quelle cosmiche.
Siamo in riva al Danubio, nella mitteleuropa, ma potremmo essere a Stonehenge.
Sarebbe la stessa cosa.
È la Magna Mater latina, la dea Sekhmet che ha trovato sollievo dagli affanni ed ha accantonato ogni odio e rancore contro gli umani, una strega Wicca che officia un rito di magia della natura, sullo schermo il primo piano delle sue mani a stringere i capelli rossi.
E la danza è protagonista del live così come del disco.
Salta sulla passerella centrale e arriva su una pedana ottagonale in mezzo al pubblico e il pubblico salta con lei in comunione fisica e spirituale: le ragazze e ragazzi in adorazione davanti a una divinità.
Scende tra il pubblico a stringere le mani come un capo religioso, la security impazzisce correndole dietro, mentre sale sulla transenna del pubblico e poi ad abbandonarsi tra i fortunati occupanti delle prime file.

Un rito di magia naturale e insieme una confermazione di appartenenza tribale.
L’esperienza è esserci prima ancora di ascoltare.
La musica in senso stretto è il contorno, che può essere di qualità o meno – e la prima alternativa, come nel caso di Florence + The Machine è sicuramente la situazione migliore – ma la protagonista assoluta è la fusione, l’empatia, l’identificazione con la figura che occupa il palco.
Costruire o ribadire un’identità collettiva, il cui simbolo e attrattore è stasera l’artista di Camberwell, che invita tutti ad abbracciarsi l’un l’altro.
Inutile litigare e discutere sul dito quando la luna illumina così bene il vestito rosa e la carnagione diafana di Florence Welch.
A questo serve il rock, il pop, i festival.
È così oggi, ma era così anche sessanta anni fa quando le urla delle fan coprivano il suono della musica dei Beatles, quarantatré anni fa al concerto di Bob Marley a San Siro, trentaquattro nella Piazza San Marco piena fino all’inverosimile per i Pink Floyd.
È così stasera con Florence + The Machine.
Il resto è buono solo per chi si ingrassa con le litigate sui social.
Qui intanto ballano, si abbracciano, sorridono, cantano tutte e tutti.

E questa atmosfera di fusione e comunione pervade ogni più piccolo angolo dell’isola del festival.
Dal Main Stage ci spostiamo nell’enorme struttura a tendone del Freedome, dove anche lì migliaia di persone continuano a respirare e muoversi come un unico organismo, con il cuore che batte insieme ai bassi di Bonobo e della sua band, basso, chitarra, batteria, synth, programmazione, sezione fiati – tromba, trombone, sax, flauto – e voce femminile.

Bonobo

Continuiamo a rilasciare endorfine e ci immergiamo in apnea nelle atmosfere senza gravità dei suoi suoni elettronici e al tempo stesso connessi nel profondo con le forze della natura di “Fragments!, il suo ultimo lavoro.
«You saved my life», recita il cartello di una ragazza in prima fila alla transenna.
Chissà, forse anche la mia.
Adesso però ballo anche io.
A domani.

Photo Gallery

© Giulio Paravani
Budapest, 10/08/2023

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